30 settembre 2022
CHERNIVTSI – “Mia sorella e suo marito hanno provato a fuggire da Kherson, ma li hanno bloccati. Come loro, decine di altre persone”. Fino a qualche mese fa Olena viveva a Kachovka, una città ucraina della regione di Kherson a cui oggi Vladimir Putin dovrebbe cambiare i connotati geografici, sostituendo la bandiera ucraina con quella russa. L’annessione avviene dopo i referendum indetti dal Cremlino lo scorso 20 settembre nelle due repubbliche autoproclamate di Luhansk e Donetsk, che la Russia considera già indipendenti, e nelle zone occupate di Zaporizhzhia e Kherson.
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Le votazioni, che hanno riguardato quattro milioni di persone, sono state considerate una farsa sia dal governo ucraino sia da gran parte della comunità internazionale, visto che molte testimonianze documentano come sia mancato il totale rispetto degli standard minimi di un processo elettorale valido, a partire dall’occupazione militare dei territori in cui la popolazione è andata alle urne. Condizioni che hanno reso scontati fin dall’inizio anche i risultati. I media russi l’hanno raccontato come un grande successo: alla domanda “vuoi che la tua regione entri nella Federazione russa” avrebbe risposto sì il 98,4 per cento degli abitanti dell’oblast di Luhansk, il 93,1 per cento di quello di Zaporizhzhia. Un plebiscito sarebbe stato raggiunto nel Donetsk, con il 99,2 per cento di voti a favore. E la quota più bassa di consenso registrata a Kherson: l’87 per cento.
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A Mosca si festeggia con una cerimonia ufficiale e, si vocifera, anche con un concerto sulla piazza Rossa. Putin e i funzionari fantoccio insediati nelle varie regioni firmeranno i trattati nella sala di San Giorgio del Cremlino. Intanto, proprio a Kherson – testimonia Olena – ci sono decine di persone che in queste ore stanno tentando la fuga, ma vengono respinte. E questa mattina dei missili russi hanno colpito un convoglio umanitario in uscita da Zaporizhzhia uccidendo 23 persone e ferendone altre 28, tutti civili. “Mia sorella e un’altra famiglia sono state fermate a Zaporizhzhia e rimandate indietro con la scusa che avrebbero avuto bisogno di un’altra patente per lasciare la zona”, dice Olena, aggiungendo che “molti suoi coetanei non hanno votato”. La notizia di persone che non riescono a lasciare la zona è stata confermata da istituzioni e Ong al lavoro sui territori di confine.
"A Kherson ci sono decine di persone che in queste ore stanno tentando la fuga, ma vengono respinte"
Olena ha abbandonato Kachova a fine marzo e al momento vive nel dormitorio della Chernivtsi National University, dove la carovana di Stop the war now – guidata da Un ponte per e il Movimento Nonviolento – ha consegnato gli aiuti umanitari al suo arrivo in Ucraina. Nella piccola stanza condivisa con i tre figli, e affollata di palloncini gonfiati per festeggiare l’ottavo compleanno di uno di loro, racconta la sua storia. Prima della guerra, lavorava come contabile, suo marito faceva l’ingegnere. Con l’arrivo dei soldati russi, la loro quotidianità è stata stravolta: “Il nostro stile di vita non era compatibile con quello degli occupanti – spiega –. Sentivamo la nostra libertà e anche la nostra vita minacciate”. Così ha deciso di andar via, e la gran parte di chi è rimasto – a suo avviso – non l’ha fatto perché appoggiava i nuovi arrivati ma perché è “anziana, ha problemi di salute o ha paura di perdere tutto”: “I favorevoli all’annessione sono una minoranza. Agli altri manca solo l’alternativa: sotto minaccia, molte aziende hanno smesso di pagare i salari. In cambio i russi offrono uno stipendio, se vuoi sopravvivere non puoi non accettare”. Olena è arrivata a Chernivtsi dopo cinque giorni di viaggio e interminabili posti di blocco, ora si sente in salvo ma non trattiene le lacrime pensando al marito, al fronte.
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Quasi tutti i compagni delle donne ospitate nella residenza universitaria in questo momento sono nelle forze armate, precisa Alina Nykolaichuk, 29 anni: una delle volontarie del dormitorio e a propria volta sposata con un uomo più volte ferito durante i combattimenti. Anche Marina è qui da sola con il figlio Nazar, di sei anni. È di Kharkiv, una delle città più martoriate dal conflitto, dove ha resistito fino al 20 marzo, passando di rifugio in rifugio. Poi neanche la vita sotterranea è riuscita a farla stare tranquilla: la cronaca le ha dato ragione visto che il suo quartiere è stato del tutto raso al suolo dai bombardamenti. “L’ho scoperto in tv, poi dei conoscenti mi hanno mandato dei video. Non abbiamo più nulla”, racconta mostrando le immagini di palazzi sventrati e strade coperte da macerie.
Olena è arrivata a Chernivtsi dopo cinque giorni di viaggio e interminabili posti di blocco, ora si sente in salvo ma non trattiene le lacrime pensando al marito, al fronte
Pure i pochi brandelli di vita che aveva infilato nella valigia, li ha dovuti abbandonare in stazione: in quei giorni i fuggiaschi erano così tanti, tutti insieme, che sui treni non c’era spazio sia per loro sia per i bagagli. Hanno dovuto scegliere: o il passato o il futuro. La vita di prima è rimasta sulle banchine. Nelle carrozze ci si appisolava in piedi. Marina è stata la prima profuga ospitata nel dormitorio e ha dovuto imparare a fare propria una nuova normalità, scandita dalle sirene antimissile, che almeno in questa città – l’unico grande centro dell’Ucraina a non essere mai bombardato, dicono – per ora non suonano più. “All’inizio ero terrorizzata, come tutti, ora ci siamo abituati a questa vita. È triste dirlo, ma la guerra è diventata la nostra normalità”.
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Yevhen Voloshchuk, vice capo del sindacato studentesco dell’università di Chernivtsi, dà alcuni dati: al momento il dormitorio studentesco ospita tra i 150 e 200 rifugiati provenienti dal sud e dall’est dell’Ucraina, per lo più donne con bambini, allo scoppio della guerra si è arrivati pure fino a 500. “Difficile riassumere le motivazioni che hanno spinto le persone a fuggire – conclude Alina –. Per fare un esempio: nell’oblast di Kharkiv, da cui è arrivata Marina, sono stati appena documentati 18 posti in cui hanno rapito e ucciso le persone. Chi è scappato, non voleva fare la stessa fine”.
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