28 febbraio 2023
È una fredda domenica di sole e l’aria punge la pelle. Il silenzio di questa immensa periferia a macchie, che è il territorio aquilano, è rotto appena da qualche auto che passa sulla provinciale. Marjan, Karima, Basira, Mahnaz e le altre ragazze scendono le scale di metallo del caseggiato: le magliette bianche, il caschetto in testa e la bicicletta in spalla. Ridono mentre percorrono il breve pendio che porta alla strada in faccia al Monteluco, con il suo dorso brullo interrotto soltanto da grappoli di pecore. Mahnaz dice che l’ha già scalato: sono partite all’alba e alle due del pomeriggio erano già di ritorno. Poca roba per loro, appena un pallido simulacro dei rilievi della provincia di Bamyan, in Afghanistan, da cui provengono. Non sanno che proprio sulle sue pendici, nel luglio 2009, gli attivisti aquilani avevano scritto a lettere giganti "Yes, we camp", esasperati per la gestione dell’emergenza post sisma, che dopo tre mesi costringeva ancora gli sfollati sotto i tendoni. Sono già passati 14 anni ma sembra ieri: a testimoniarlo proprio i casermoni antisismici che le ragazze si sono appena lasciate alle spalle.
Lo Stato accoglie gli afghani a spese di privati e Ong
Queste ragazze sono atlete afghane arrivate in Italia la scorsa estate con un gruppo di 70 persone grazie a un corridoio umanitario della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). Oggi vivono a Roio – una delle tante frazioni dell’Aquila – ospitate nelle famigerate “case di Berlusconi”, costruite in pochi mesi per i terremotati e ora in gran parte vuote. Qui hanno trovato alloggio e accoglienza, dopo attese e pericoli, grazie all’attenzione di alcune persone che si sono prese cura di loro. Prima di tutte, la giornalista sportiva Francesca Monzone, che le conosce e le supporta da anni, e poi l’imprenditore israeliano Sylvain Adams, che con la sua squadra Israel Premier Tech e l’ong IsraAid ha aiutato il team a raggiungere il Pakistan.
Alcune, come Mahnaz Mohammadi, hanno dovuto aspettare mesi prima di avere il permesso di partire: "È stata dura, sono rimasta sette mesi da sola, chiusa in una stanza con altre cinque ragazze, e mi sono ammalata. Faceva caldissimo, di notte piangevo e di giorno camminavo per calmarmi". A quattro anni ha iniziato a pedalare su una bicicletta rossa senza freni: "Per fermarmi strisciavo i piedi per terra", ricorda. A 12 anni è entrata a far parte di una squadra locale mista: "Cominciavamo ad allenarci prima dell’alba, era faticoso ma il mio allenatore mi incoraggiava sempre: è stato un periodo bellissimo". Mahnaz ha soltanto 17 anni ma non le manca certo la determinazione. Nei mesi di solitudine in Pakistan, in attesa del volo per l’Europa, per calmare l’ansia ha studiato l’italiano con la app Duolingo.
Anche a immaginare di percorrerla in bici, la distanza fra l’Afghanistan e l’Italia è enorme. Anzi, incalcolabile, perché più che i chilometri che separano idealmente la regione di Bamyan dall’Aquila, o la lingua e i panorami tanto diversi da farti perdere l’orientamento, contano gli affetti lasciati indietro e il futuro immaginato in un Paese che oggi, per le donne, semplicemente non esiste. "I talebani sono dei mostri – dice Mahnaz – le donne non possono andare a scuola, al parco o nei negozi, devono soltanto trovare un marito e stare a casa". "La situazione in Afghanistan è drammatica – conferma Giulia Gori, responsabile dei corridoi umanitari della Fcei all’Aquila –. Dopo la presa di Kabul dell’agosto 2021, insieme a Caritas, Arci e Sant’Egidio abbiamo firmato un protocollo con il ministero dell’Interno per aprire una via di fuga dal Paese. Le richieste sono moltissime". A novembre, grazie a un altro corridoio della Fcei, Mahnaz ha potuto riabbracciare i genitori, il fratello e le due sorelle: "La più piccola ha solo due anni e non mi ha riconosciuta", dice. Anche le tre sorelle Sediqi sono state raggiunte dal padre, mentre altre sono ancora in attesa del ricongiungimento familiare.
Le case degli afghani agli ucraini
"Dico sempre alle mie amiche che dobbiamo far vedere quanto sono forti le ragazze afghane nel difendere i propri diritti"Mahnaz - Ciclista afghana
Ora vivono tutti insieme in questo stabile del progetto Case – Complessi antisismici, sostenibili ed ecocompatibili – 4.500 appartamenti costruiti a tempo record dopo il terremoto e oggi in gran parte vuoti. Una nuova abitazione messa a disposizione del Comune dopo la firma del corridoio umanitario per l’Afghanistan. Una situazione provvisoria, perché le ragazze, isolate in una delle tante borgate periferiche dell’Aquila, sono lontane da socialità e occasioni di integrazione. In settimana frequentano le lezioni d’italiano al Cpia – il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti – a un quarto d’ora di macchina dal loro alloggio.
Un problema non da poco in una zona in cui i trasporti sono rari e che spesso si risolve, fra attese e percorso, in tre ore di viaggio per andare e tornare da scuola. Nell’edificio in cui abitano Mahnaz e le sue amiche le finestre sono quasi tutte chiuse, poche famiglie di rifugiati abitano gli appartamenti uguali; nel parco giochi allestito fra i palazzi risuonano parole straniere, balconi e infissi si screpolano fra mucchi di vecchi vestiti, il cemento è rigato dalla ruggine; un pallone giallo è abbandonato su una tettoia. Loro, naturalmente, non si scoraggiano: "Dico sempre alle mie amiche che dobbiamo far vedere quanto sono forti le ragazze afghane nel difendere i propri diritti", ripete Mahnaz con fierezza. Già prima dell’arrivo dei talebani al governo, le ragazze utilizzavano proprio l’amore per le due ruote per lottare contro la discriminazione di genere. Hanno imparato a pedalare sulle strade polverose di Bamyan, contribuendo a scrivere la storia del ciclismo femminile in Afghanistan. Una storia recentissima, fatta di determinazione e resistenza.
"Uscivamo per strada in gruppo, protette ai lati dai ciclisti nostri amici, perché la gente ci accoglieva a sassate"Zhara Atayee - Ciclista afghana
Nel 2014 Zhara Atayee ha organizzato un team di cicliste che pedalavano per mostrare alle altre ragazze che, come i maschi, anche loro potevano andare in bici. "Uscivamo per strada in gruppo, protette ai lati dai ciclisti nostri amici, perché la gente ci accoglieva a sassate". Zhara, un’attivista che in Afghanistan lottava per i diritti delle donne, è stata per tre anni una sminatrice: "Ero la prima donna a fare un lavoro del genere – racconta – ovviamente non è durato a lungo, gli integralisti non potevano accettare che mi vestissi da uomo". Marjan Sediqi, 33 anni, una delle prime atlete del Paese, ha inforcato la bicicletta soltanto quattordici anni fa. "Mentre mi allenavo per strada a Kabul, mi hanno sparato alla schiena", racconta Marjan, costretta a fermarsi per sei anni. Poi in Italia ha potuto rimettere i piedi sui pedali.
Zuliekha Sarwari è l’unica che ha gareggiato nella nazionale femminile. Lo scorso 23 ottobre ad Aigle, in Svizzera, sede della Federazione mondiale di ciclismo, con il supporto di IsraAid, lei e le altre ragazze hanno partecipato ai Campionati di ciclismo su strada femminili dell’Afghanistan per la loro prima gara “in trasferta”. Erano in 49, arrivate da Svizzera, Italia, Francia, Germania, Canada e Singapore per correre insieme con la maglia Racing for change. "Abbiamo avuto le bici un giorno prima di partire per la Svizzera – dice emozionata Basira Sediqi – non mettevamo i piedi sui pedali da due anni, siamo già soddisfatte di aver terminato i quasi 60 chilometri previsti". Ora, grazie a Francesca Monzone, hanno avuto in regalo le biciclette e hanno ricominciato ad allenarsi. Con il bel tempo percorrono in fila da 20 a 80 chilometri al giorno sulle alture aquilane, in attesa di poter riprendere a correre altrove, ognuna per la propria strada.
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