Michele Mari, scrittore italiano, alla finale del Premio Chiara 2022 (Wikimedia)
Michele Mari, scrittore italiano, alla finale del Premio Chiara 2022 (Wikimedia)

La letteratura italiana e le lingue inattuali tra parodia e tradizione

Un'opera narrativa è fatta soprattutto dalla lingua utilizzata. In certi romanzi e racconti ambientati nel Medioevo, nel Rinascimento o nell'Età moderna si usano parole e costruzioni antiquate o una lingua immaginaria. Obiettivo: ironizzare, fare satira, raccontare il comico e il grottesco. Ecco cinque titoli che ben si adattano a questi casi

Livio Santoro

Livio Santoroscrittore

23 marzo 2023

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Sviluppare una trama avvincente, seguire complessi intrecci narrativi, inanellare colpi di scena in serie, offrire ritratti psicologici coerenti e fedeli, descrivere interazioni credibili tra i personaggi: sono queste alcune delle maggiori preoccupazioni con cui bisogna fare i conti nellacostruzione di un’opera narrativa. Tuttavia, è anche vero che non di sole trame né di soli personaggi vive la letteratura. Vive piuttosto, anche e forse soprattutto, d’altro: ovvero di lingua. Essa costituisce il vero elemento caratteristico di un autore, la cifra che in fin dei conti ne determina più di altre la peculiarità degli scritti. In tal senso sono molti, in Italia, gli esempi di autori che si sono adoperati per creare una lingua squisitamente propria, lontana da quella quotidiana e adeguata al sostegno di un mondo narrativo a sé: Gabriele D’Annunzio, per fare il più classico degli esempi, o qualche anno più tardi Giorgio Manganelli. Proprio quest’ultimo, in un intervento sulle pagine de L’Espresso nel 1974 sostenne l’inadeguatezza della lingua comune per la letteratura: “Grazie a giornali, radio, televisione – affermò – oggi la nostra società parla il linguaggio più misero, affranto, falso, ripetitivo, morto, neghittoso che si sia mai parlato”.

In entrambi i casi D’Annunzio e Manganelli, l’attenzione per la lingua si rivolge in larga parte al passato. Con loro siamo di fronte a quella che, forse pleonasticamente, viene chiamata “lingua letteraria”: un complesso di lessico e sintassi rivolto a epoche non più attuali che, vivendo principalmente se non esclusivamente sulla carta, intende rinverdire i fasti della tradizione linguistica passata, la sua ricchezza e la sua profonda varietà. 

Inattualità e invenzione linguistica per innescare il comico e il perturbante

Vi sono però anche altri motivi a spingere verso l’utilizzo di vocaboli e costruzioni sintattiche non più in uso. È il caso di quei romanzi e racconti che collocano il narrato in un’epoca storica precedente e ben riconoscibile (medievale, rinascimentale, moderna etc.), adottando in toto una lingua antica o inventandone una che alle lingue antiche faccia il verso. Questo tipo di narrazioni impiegano un simile dispositivo linguistico per ironizzare, satireggiare e sostenere per lunghe pagine l’onere del comico e del grottesco (e in certi casi anche del perturbante) senza farsene soverchiare. I cinque titoli di seguito descritti ben si adattano a quanto fin qui detto.

Tommaso Landolfi, La passeggiata (in Racconti impossibili)

Il primo testo di cui intendiamo parlare è un racconto emblematico nella letteratura italiana “di lingua”, un racconto che, pur non ambientato in un tempo lontano, utilizza una lingua totalmente inattuale, passatista ma non passata, infarcita di arcaismi, termini desueti, rari, poetici e letterari. Si tratta de La passeggiata, breve racconto pubblicato nel 1966 da Tommaso Landolfi come apertura della raccolta Racconti impossibili (edita in origine da Vallecchi, ma dal 2017 in forza al catalogo Adelphi). Questo è l’incipit del racconto:

“La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima… Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fondina”.

Quando comparve in prima edizione, La passeggiata fu descritto da alcuni critici svogliati come un’accozzaglia di parole dialettali o gergali, se non addirittura totalmente inventate. Ma la realtà era (ed è) tutt’altra: ogni parola del racconto, per quanto fuori dall’uso, era (ed è) regolarmente attestata nei dizionari italiani. Landolfi ne fece largo utilizzo per rimarcare la ricchezza del nostro idioma e per portare al parossismo il  gusto per l’“inattuale” che si legge anche negli altri suoi racconti e romanzi, per quanto in forma meno estrema, facendo de La passeggiata una sorta di manifesto della sua intera opera letteraria.

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Michele Mari, Io venía pien d’angoscia a rimirarti

Considerato da molti come l’erede letterario di Landolfi, nel 1990 Michele Mari pubblica con Longanesi, lo straordinario Io venía pien d’angoscia a rimirarti (poi ristampato da Einaudi nel 2016). Il titolo, è un verso del canto Alla luna di Giacomo Leopardi. Ed è proprio il letterato di Recanati il protagonista del libro, scritto come un diario che Mari attribuisce a Carlo Orazio, fratello minore del poeta. Con una prosa fedele all’italiano colto dell’Ottocento, Io venía pien d’angoscia a rimirarti riporta le preoccupazioni familiari per un Leopardi appena adolescente, avvezzo tanto a misteriose e incessanti letture, quanto alla contemplazione della luna, astro che se da una parte è sodale dei poeti, dall’altra lo è anche dei lupi. Dalle pagine del diario emerge a poco a poco un dubbio: che il giovane Leopardi sia invero un licantropo? Che la sua attrazione per la luna sia dettata da istinti ferini? Domande supportate da strani accadimenti, come la morte di svariate pecore di proprietà della famiglia del poeta, misteriosamente trucidate da zanne di animali sconosciuti, e dal fatto che Giacomo si mostri ogni giorno più solitario. Sprofondato in notturne abitudini meditative che lo portano a trattenersi “lunga pezza al verone a contemplare il notturno stellato”, nella ricerca spasmodica di un “Vero più fascinoso d’ogni illecebra poetica, un Vero secreto ed ascoso per gelosia di Natura, e capace di destare le più dolci emozioni come i raccapricci più orrendi in virtù della sua lunghezza”. 

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Luigi Malerba, Il pataffio

Prossimo all’ Armata Brancaleone di Monicelli è invece Il pataffio, romanzo assai divertente di Luigi Malerba, pubblicato per la prima volta nel 1978 da Bompiani e oggi ristampato da Quodlibet (nel 2022 ne è stato tratto anche un film con Lino Musella e Viviana Cangiano, per la regia di Francesco Lagi). Scritto in un finto volgare imbottito di latinismi e dialetto romanesco, a seconda del personaggio che volta per volta prende voce, il libro mette in scena le vicende del marconte Berlocchio de Cagalanza, metà marchese e metà conte, chiamato a insediarsi con il suo seguito e la sua sventurata consorte, Bernarda di Montecacchio, presso il castello di Tripalle, vetusto insediamento di infimo livello sperso nella piana del Tevere. Siamo in un Medioevo afflitto da una profonda carestia, un’epoca cui l’unica preoccupazione di sudditi, servi, soldati, chierici e regnanti è come procurarsi il cibo, qualunque ne sia l’origine o la consistenza, cosa che spinge il marconte a produrre varie spassose ordinanze per requisire e far suo ogni alimento all’interno del nuovo feudo. Si prenda, in proposito, quella recitata da Berlocchio all’atto del primo insediamento nel castello di Tripalle: “Ordinamo et statuimo che se pongano sentinelle all’ingresso e l’uscita del castello acciocché non sorta dal cortile niuna bestia volatile, bipede aut quadrupede, pelosa aut piumata. Per niuna ragione se metta mano su le bestie che al momento istante de lo mio ingresso sono devenute proprietà signorile”.

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Ezio Sinigaglia, L’imitazion del vero

Egualmente ambientata in epoca medievale, per quanto in tutt’altro scenario e in tutt’altra fase, è anche la novella L’imitazion del vero di Ezio Sinigaglia, edita nel 2020 per la casa editrice TerraRossa. Scritto in una lingua finto boccaccesca che si disinteressa della correttezza filologica (come d’altronde il succitato Pataffio), il libro è ambientato in un passato collocabile grossomodo tra la fine del Trecento e la fine del Quattrocento, in un principato, Lopezia, tanto simile alla Toscana pre-rinascimentale, in cui il peccato di sodomia è ascritto tra le gravi colpe. Vi si raccontano le avventure di un ingegnoso mastro d’ascia, tale Landone, cui “grave ingiuria […] si farebbe chiamandolo col nome di falegname”, e del garzone della sua bottega, Nerino, “un giovinetto […] nero d’occhi e di pelo com’un saraceno, e di sorriso invece bianchissimo, talché, nel contrasto, più bianca ancora la parte bianca appariva, e più nera la nera”. Frugando tra le invenzioni del mastro d’ascia, il garzone ne scopre una davvero eccezionale: una macchina il cui scopo è la stimolazione, nell’uomo, delle gioie dell’amplesso, una macchina capace addirittura “di mutar la natura dei trastulli e l’ordine loro, quasi l’artefice v’avesse insieme coll’articolazione dei bracci meccanici anche il discernimento dell’ingegno calato”. Grazie alla macchina e alle sue portentose qualità,la novella vira verso una trama che parla dell’amore, del desiderio e della passione, dando voce alla sofferenza di chi se li vede negati,ma anche al gaudio di chi li può finalmente ottenere.

Gennaro Ascione, Untori

La Napoli rinascimentale è invece il palcoscenico di Untori, romanzo di Gennaro Ascione edito nel 2022 da Magmata. Non a caso diciamo “palcoscenico”: Untori, debitore della tradizione teatrale partenopea, mescola satira e commedia degli equivoci. Un testo dissacrante in cui personaggi assai tipizzati prendono voce con una lingua che fa il verso a un italiano di gusto antico, in cui spiccano innesti di napoletano, spagnolo, latino e dialetto veneto in una continua ricorrenza di rime, assonanze e onomatopee. La trama si svolge in un periodo oscuro in cui “la paura ingrossa l’onde dell’ubbia popolare e [in cui] la Verità, lasciata sola, soccombe all’equivoco che null’accomoda seppur, col riso, il cor consola”. Napoli è infatti funestata da un brutto morbo infettivo, e “i morti soverchiano a tal punto i vivi e quelli in forze che per strada o nelle case si lasciano a marcir uomini e donne ovunque la morte l’abbia falcidiati”. A quanto pare tale morbo è diffuso da oscuri untori che agiscono nottetempo, ed è proprio la ricerca di questi ultimi a muovere la narrazione, fino al parodico processo che si tiene in conclusione. Sullo sfondo, una folla di poveri e ricchi che condividono a fatica il centro antico della città, per tradizione ritroso al disciplinamento. Un luogo che, in conformità di uno stereotipo tuttora in voga, e che lo stesso Ascione pone in farsa, è popolato da gente abituata a vivere per espedienti: “una miscuglia di disperati, disgraziati, fuoriusciti da tempeste, peregrini, inutili e inerti, che son più comodi a rubare che a lavorare per non morir di stenti”.

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