20 dicembre 2022
Quando bisogna dar conto del tema del lavoro nella letteratura italiana, recuperando un’opera che l’abbia affrontato in maniera esemplare, si fa molto spesso riferimento al romanzo di Primo Levi del 1978 La chiave a stella, che valse allo scrittore piemontese la vittoria dello Strega e alcune critiche provenienti dal versante più a sinistra della società. Il romanzo, infatti, offriva un’ottimistica visione del mondo del lavoro senza metterne in questione i lati più oscuri, in evidente contrasto con il movimento operaio e i teorici d’ispirazione marxista, per loro naturale inclinazione votati alla critica dell’alienazione del lavoro manuale e alla denuncia dello sfruttamento dei lavoratori da parte degli apostoli del capitale.
Faussone, il protagonista del romanzo, narrando in prima persona la sua lunga biografia di operaio impegnato ai quattro angoli del mondo nella messa in opera e nella manutenzione di grandi infrastrutture, si lascia infatti andare a una vera e propria elegia del (suo) lavoro tramite dichiarazioni di questo tenore: “Se io faccio questo mestiere di girare per tutti i cantieri, le fabbriche e i porti del mondo, non è mica per caso, è perché ho voluto. Tutti i ragazzi si sognano di andare nella giungla o nei deserti o in Malesia, e me lo sono sognato anch’io: solo che a me i sogni mi piace farli venire veri”.
Scopri "Povero Lavoro", lavialibera n.15
Ma quella di Faussone sembra ormai una storia d’altri tempi, e ciò su cui oggi a destra e a sinistra si potrebbe invece concordare è che l’attuale ambito del lavoro difficilmente ispirerebbe simili personaggi letterari. Il mondo delle professioni è infatti profondamente mutato rispetto al secolo scorso, ed è spesso adombrato, come ben sappiamo, dallo spettro del precariato. La letteratura italiana, naturalmente, ha recepito la tendenza, e se da una parte è arrivata a descrivere “personaggi precari” (precari “epigrammatici” dell’esistenza e precari sulla pagina, più che in termini professionali), come quelli dell’omonima raccolta di brevissimi ritratti scritta da Vanni Santoni (Personaggi precari, RGB 2007, poi Voland 2013), dall’altra ha prodotto una serie di narrazioni che hanno al centro proprio il tema lavoro, ma in termini per lo più negativi e di scuro ben lontani da quelli di Faussone.
In quest’ordine di idee, nel rintracciare il tema nella letteratura italiana degli ultimi vent’anni, proviamo di seguito a ripercorrere alcune tappe di tale recente percorso, mettendo in fila cinque dei tanti testi narrativi che hanno affrontato la questione del lavoro e concentrandoci sugli ambiti del mondo delle professioni che di recente sono stati più di altri al centro del dibattito pubblico.
Uno dei libri che hanno aperto la stagione letteraria delle riflessioni su precariato e lavoro è Il mondo deve sapere: romanzo tragicomico di una telefonista precaria di Michela Murgia, pubblicato da ISBN nel 2006 (poi ristampato da Einaudi nel 2017) a partire dai post di un blog in cui l’autrice raccontava vari aneddoti del suo mestiere del tempo: l’operatrice di call center, figura professionale che più di altre, almeno in principio, è stata associata al precariato. Non si tratta di un’opera memorabile per il suo valore letterario, piuttosto per la sua dimensione testimoniale, quale documento in presa diretta di quanto accade in quegli ambienti a moralità sospesa che sono i call center nella loro variante più perniciosa, cosiddetta outbound. Con distacco e sarcasmo, Murgia racconta della propria esperienza in uno di questi luoghi a sé, totalmente distaccati dal resto della società come una qualsiasi istituzione totale (ovvero carceri, manicomi, caserme, sette etc.), facendosi beffa delle storture imposte dal sistema agli operatori che ne fanno parte: competizione spicciola, interiorizzazione delle regole della comunicazione commerciale ingannevole, rispetto acritico della gerarchia, ripetitività delle mansioni, imposizione di tempi e spazi rigidi, appiattimento dei desideri individuali e annullamento sociale delle aspettative.
I nostri articoli sul lavoro povero
Anche l’università in cui Gilda Policastro ambienta il suo raffinato romanzo Sotto (Fandango, 2013) ha tutta l’aria di un’istituzione totale: un contesto in cui la frustrazione dell’individualità fa il paio con un rigido sistema illecito e coercitivo di regole non scritte messe a stabilire le modalità di accesso alla, e di allontanamento dalla, carriera (come d’altronde la stessa Policastro avrebbe poi denunciato nel 2016 su Il fatto quotidiano, in una lettera aperta all’allora premier Renzi). Al contrario del libro di Murgia, Sotto nasce con l’esplicita intenzione di fare vera letteratura, grazie anche a un attento e del tutto peculiare utilizzo della lingua. Nel romanzo, l’autrice segue in alternanza le vicende di due aspiranti ricercatrici costrette a rispettare, e in molti casi a riprodurre in prima persona, le feroci logiche di selezione su cui si regge l’Accademia. Dirette dalla regia nemmeno troppo occulta di un professore ordinario “cinico e infelice” ormai prossimo alla pensione, le due contendenti affrontano ciascuna a modo proprio la strada per la carriera e l’emancipazione dal precariato della conoscenza: un impervio percorso in cui non è necessariamente il più forte a sopravvivere, ma il più disponibile e fedele, spesso al di là del merito e della preparazione, caratteristiche che invece, per accedere alla professione accademica, sembrano a tutti gli effetti accessorie, nel romanzo e non solo.
A scuola di disuguaglianza: come il sistema educativo rafforza le disparità
Tutt’altro ambito quello in cui è coinvolto il protagonista di Restiamo così quando ve ne andate, godibile romanzo di Cristò edito nel 2017 per la casa editrice barese TerraRossa. Vessato dalla dirigenza del supermercato in cui ha trovato occupazione grazie a un’entratura familiare, il protagonista del romanzo è un addetto alle vendite soggetto a frequente demansionamento e in costante conflitto con l’ambiente di lavoro e i diretti superiori. Le sue speranze di trovare soddisfazione professionale nella musica classica, sua prima passione, si scontrano continuamente contro le aspettative della famiglia, sedotta dal mito consolatorio e novecentesco del posto fisso, e contro le sue stesse inclinazioni caratteriali, che lo rendono apparentemente inadatto alla reazione e lo portano dunque all’accettazione di una routine tutto sommato in equilibrio, per quanto di certo poco appagante. Questo fin quando un fatto grave, la morte del suo unico collega amico, non lo destabilizza definitivamente, spingendolo ad abbandonare la sicurezza del lavoro da dipendente per tentare con grande incertezza la via della musica.
Più recente è Sono fame di Natalia Guerrieri (Pidgin, 2022), romanzo generazionale di agile lettura in cui si narrano le vicende di un’under 30 che ripiega sulle consegne di cibo a domicilio dopo una laurea in filosofia e un deludente tirocinio nel settore editoriale. Siamo in una megalopoli immaginaria in cui le dinamiche della contemporaneità vengono esasperate al parossismo e in cui tutto è sfruttamento. Nel rappresentare uno dei mestieri ultimamente più discussi (il rider, che nel romanzo prende il nome di “rondine”), Guerrieri pone al centro della narrazione la dimensione corporea, per sottrarre il lavoro dalle sue caratterizzazioni immateriali e tornare alla radice classica dello sfruttamento, che riguarda in prima battuta i corpi: nell’immensa città ostile, “piena di occhi” e fatta di edifici “rosa carne”, la rondine protagonista procede frenetica sulla sua bici difendendosi da aggressioni di ogni genere; sulle spalle sempre lo zaino per le consegne, come “un secondo strato di schiena”. A dirigere le sue azioni sono un algoritmo e un coordinatore assillante il cui unico interesse è il profitto dell’Envoyé, l’azienda di consegne, nel costante tradimento del mendace refrain recitato dai responsabili delle risorse umane in sede di reclutamento: “Nessuno vi dirà mai cosa dovete fare, nessuno vi dirà mai quanto dovete lavorare, nessuno vi obbligherà mai a fare niente, con Envoyé. […] Voi siete padroni di voi stessi, tutto il potere sarà nelle vostre mani”.
Rider e politica: tanta propaganda, minime tutele
Menzione a parte va fatta infine a Works di Vitaliano Trevisan (Einaudi, 2016), scrittore (e drammaturgo, attore, regista) recentemente scomparso che possiamo senz’ambagi annoverare tra le migliori penne italiane dell’ultimo mezzo secolo. Works, ovvero il romanzo che più di altri ha fatto proprio il tema del lavoro, portandolo all’evidenza già nel titolo. Il libro, un lungo romanzo di formazione dalla prosa coinvolgente, impeccabile e vorticosa, ripercorre le innumerevoli tappe professionali che hanno caratterizzato la vita dell’autore, a partire dal primo lavoro da ragazzino che lo vide impiegato in una fabbrica di gabbie per uccelli fino all’approdo nel mondo della cultura, passando attraverso numerosi altri mestieri: muratore, cameriere, gelataio, lattoniere, venditore di mobili, disegnatore tecnico, pusher e così a seguire. Un tragitto di carriera lungo una vita, profondamente eclettico e assai ondivago, che si svolge per la maggior parte “in una regione, il Veneto, e in una provincia, Vicenza, che fa del lavoro una religione”. Sullo sfondo delle minime vicende biografiche, quelle più grandi della storia sociale: la temperie politica degli anni Settanta e Ottanta del Novecento, la stagione dell’eroina, il più recente disfacimento del sistema delle piccole imprese nell’operoso Nord-Est. Un testo irrinunciabile per chiunque voglia percorrere una delle tappe fondamentali del dibattito letterario in tema di lavoro, e anche per chi voglia semplicemente leggere uno dei migliori romanzi italiani pubblicati negli anni Duemila.
Crediamo in un giornalismo di servizio ai cittadini, in notizie che non scadono il giorno dopo. Aiutaci a offrire un'informazione di qualità, sostieni lavialibera
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti
In un calcio diventato industria, mafie ed estremismo di destra entrano negli stadi per fare affari
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti