20 maggio 2020
Storicamente le mafie sono sempre state molto presenti e attive nelle emergenze, in occasione di terremoti, catastrofi e in tutte le situazioni di crisi. Esse si trovano a proprio agio nelle condizioni di eccezionalità, riuscendo a trarne profitto. D’altra parte le stesse mafie nel nostro paese sono sempre state affrontate come un problema di emergenza. Questo è un aspetto paradossale: continuiamo a vedere le mafie – e lo abbiamo fatto per lungo tempo – ancora come un’emergenza, e non come una presenza strutturale del nostro sistema economico e politico. Sarebbe invece opportuno riflettere sul “rischio mafia” tenendo presente che le mafie non sono semplici organizzazioni criminali ma soggetti che concorrono a costruire un determinato ordine sociale, influenzando pesantemente il funzionamento dell’economia, della politica e delle istituzioni.
La crisi che abbiamo davanti è senza precedenti, così come sono senza precedenti le misure che il governo sta mettendo in atto. L’allarme sulle mafie è stato lanciato per primo da Roberto Saviano e poi ripreso da molti magistrati antimafia, e anche da esperti e studiosi.
Data la situazione, è opportuno non commettere due errori, molto frequenti quando si parla di mafie e antimafia. Da un lato, bisogna evitare l’allarmismo perché può provocare effetti perversi: come ad esempio accade quando si immagina la mafia alla stregua di un attore onnipotente, finendo così per alimentare il mito della sua invincibilità. Non dobbiamo invece dimenticare che disponiamo di un apparato antimafia molto forte ed efficiente. Dall’altro lato, bisogna però evitare anche di minimizzare il rischio mafia, per non trovarsi impreparati come è accaduto spesso in passato.
Le sei opportunità che l'emergenza potrebbe offrire alle mafie
Nel dibattito pubblico quasi tutti gli osservatori sottolineano le potenzialità strategiche delle mafie. Questa capacità non va assolutamente sottovalutata. Tuttavia, a mio modo di vedere, il problema più grave non è rappresentato dalla mafia, quanto piuttosto dalle fragilità del nostro tessuto economico e dalle fragilità dei nostri assetti istituzionali, in cui le mafie possono inserirsi approfittando della situazione di emergenza. In modo sintetico, provo a indicare alcuni fattori rilevanti. Il primo punto problematico è dato dal fatto che nel nostro paese c’è un diffuso tessuto di piccole e medie imprese, molte delle quali presentavano già aspetti di debolezza economica, che adesso la crisi potrebbe aggravare, rendendole più vulnerabili anche rispetto alle mafie. Un secondo punto è l’esistenza di un ampio settore di economia sommersa che spesso sconfina nell’economia illegale, perpetuando così modi di “fare economia” ostili alle regole. Un terzo punto è che nel nostro paese dobbiamo fare i conti con una efficace e pervasiva criminalità economica e dei colletti bianchi. Accanto alla criminalità organizzata di tipo mafioso troviamo anche una corruzione sistemica e organizzata, in cui sono attivi non solo mafiosi ma anche imprenditori, liberi professionisti, politici, funzionari pubblici, esponenti delle istituzioni. La corruzione politico-amministrativa, molto radicata ed estesa, può fare da anello di congiunzione con la criminalità organizzata e può creare dei varchi proprio per l’ingresso dei gruppi mafiosi, come è avvenuto più volte negli anni.
Infine, non bisogna dimenticare che una parte di operatori economici inseguiva, già prima della fase di emergenza, la “via bassa” dello sviluppo: il guadagno facile, immediato e opportunistico per fronteggiare le difficoltà economiche e le sfide della concorrenza. Questa parte di operatori economici potrebbe avere adesso forti incentivi per rivolgersi alla mafia, vale a dire per ottenere i vantaggi che derivano dall’essere alleati ai gruppi mafiosi. Ad esempio, alcuni imprenditori potrebbero intravedere nella mafia l’ultima possibilità per non soccombere e cercare di stare sul mercato. L’esperienza storica, anche recente, ci insegna che questa è una opzione che esercita una forte attrazione su operatori economici in crisi, soprattutto se si percepiscono “a fine corsa”.
Una parte di operatori economici che già inseguiva il guadagno facile potrebbe avere adesso forti incentivi per rivolgersi alla mafia
Rispetto a queste problematiche del sistema economico-produttivo ci sono poi una serie di fragilità a livello di assetti istituzionali. Innanzitutto, una debole capacità regolativa che tradizionalmente caratterizza la nostra politica rispetto al funzionamento dell’economia. Questo aspetto è associato a una debole credenza nella legalità. Si rileva infatti un’estesa accettazione sociale di comportamenti opportunistici e ai limiti della legalità, largamente tollerati, in quanto presentano bassi costi morali e, quindi, di fatto non sono socialmente disapprovati. Basti pensare all’evasione e all’elusione fiscale, fenomeni di ampia portata, che condizionano pesantemente il nostro sistema economico, con effetti dirompenti per quanto riguarda sia i meccanismi di mercato sia quelli di allocazione e ridistribuzione delle risorse pubbliche.
Quanto sin qui detto restituisce un quadro preoccupante, che richiama un problema strutturale di lunga data, che la situazione di emergenza può rendere più acuto. Il problema non è solo e tanto la presenza di un’estesa area di illegalità, quanto il fatto che legale e illegale sono spesso confusi, sovrapposti e intrecciati, difficili da distinguere e separare. È la questione – se vogliamo usare un’espressione suggestiva – dell’area grigia. Nel dibattito pubblico si parla di area grigia facendo riferimento alla mafia; tuttavia, nell’area grigia i mafiosi sono solo uno degli attori presenti, insieme a essi troviamo imprenditori, amministratori, professionisti, ecc. All’interno dell’area grigia i mafiosi offrono agli altri attori i loro servizi di protezione e di intermediazione, attraverso i quali si stringono “alleanze nell’ombra”, ovvero relazioni di collusione e contiguità.
Bisogna infine tenere presente che le mafie – e questo è uno degli elementi di maggior rischio e pericolosità – dispongono di un’enorme liquidità che possono offrire a imprese e operatori economici in difficoltà. Come dicevo, il problema non è quindi soltanto la mafia in sé, quanto il fatto che i confini tra il lecito e l’illecito sono opachi e porosi, e possono diventarlo ancora di più in una situazione di crisi e di emergenza come quella che stiamo attraversando.
I settori più a rischio sono quelli più esposti alla concorrenza ma anche quelli più legati al territorio e quelli maggiormente sottoposti a regolazione pubblica. I rischi maggiori riguardano la presenza nell’economia legale o formalmente legale, ma passata la fase dell’emergenza sanitaria alcuni gruppi mafiosi potranno tornare a essere fortemente competitivi anche nei mercati illeciti, in particolare in quelli delle droghe, che in conseguenza della crisi potrebbero persino diventare più remunerativi di prima. La crisi esercita ovviamente i suoi effetti anche sui traffici illegali: può provocare una contrazione dei profitti nella prima fase, ma favorire poi assetti oligopolistici, che avvantaggiano i gruppi criminali più strutturati e più forti sul piano finanziario, tra i quali troviamo certamente alcuni clan mafiosi italiani.
Per quanto riguarda il fronte del contrasto, è fondamentale trovare un equilibrio tra il sistema dei controlli e la semplificazione delle procedure: sarebbe infatti sbagliato abbassare la guardia ma sarebbe anche sbagliato non prevedere consistenti interventi di sburocratizzazione. È proprio questa una delle sfide più rilevanti da affrontare. Le misure di contrasto possono avere un impatto molto forte sul funzionamento dell’economia, servono quindi strumenti differenziati: si devono mettere in campo modelli di intervento diversi, sia ex ante, di tipo preventivo, sia ex post, di tipo repressivo. Si dovrebbe ragionare su questi modelli, selezionando o combinando, a seconda delle circostanze, interventi di responsabilizzazione degli attori economici e interventi di tipo prescrittivo-punitivo. In ogni caso, è importante lasciare maggiore spazio a meccanismi di prevenzione, ad esempio predisponendo la tracciabilità dei finanziamenti erogati e il monitoraggio di imprese e attività economiche incrociando le tante banche dati esistenti.
Più in generale, sarebbe utile avere uno sguardo lungo, non affrontare il rischio mafia in modo emergenziale, bensì focalizzare il problema tenendo conto della specificità dei contesti, delle dinamiche politiche ed economiche che inevitabilmente lo caratterizzano, degli scambi e delle complicità che da sempre lo rendono pericoloso.
Vorrei chiudere queste mie riflessioni, con un veloce richiamo alla polemica sulla cosiddetta “scarcerazione dei boss mafiosi”. Si tratta di una questione molto significativa rispetto al discorso che ho provato a sviluppare, perché nasce nell’emergenza e mostra come un’emergenza, se gestita male, tende a generare altra emergenza. Nel caso in questione abbiamo l’emergenza sanitaria del Coronavirus che in realtà accresce ed esalta un’altra emergenza, preesistente e di lunga data. Come è noto, il sistema penitenziario nel nostro paese è in difficoltà da moltissimo tempo e poco si è fatto in passato per affrontare i gravi problemi che riguardano le carceri e, più in generale, le condizioni di esecuzione della pena. Questo è il primo punto da tenere presente se non vogliamo parlare sull’onda dell’emotività.
Il secondo punto: prima ancora della scarcerazione dei boss, la cosa che a me impressiona è che, all’inizio di questa vicenda, nelle rivolte che ci sono state negli istituti di pena, sono morti 13 detenuti. Questo è un dato che non si può ignorare, un dato gravissimo. Molto più grave della stessa scarcerazione dei boss. Una notizia che però è stata messa ai margini della cronaca. Questo è inaccettabile, non si può sminuire così la morte di ben 13 persone.
È sullo sfondo di questa triste vicenda che prende forma la questione dei detenuti per reati di mafia. Molto si è detto e si è scritto, resta ancora parecchio da chiarire. Pochissimi i detenuti scarcerati che erano in regime di 41bis, più numerosi quelli in regime cosiddetto di alta sicurezza. Certo è ben strano che tutti questi detenuti – diverse centinaia – siano etichettati in modo generalizzato come “boss”. Ovviamente non è così, ma distinguere non sarebbe funzionale ad alimentare lo scandalo e a fare polemica.
Il contrasto emerso tra il magistrato Di Matteo e il Ministro Bonafede rivela tensioni che covano da tempo dietro il fronte apparentemente unanime della lotta alla mafia
La questione meriterebbe un’analisi approfondita. Mi limito a sottolineare alcuni aspetti politici forse poco tematizzati nel dibattito pubblico. A mio modo di vedere, il contrasto emerso tra il magistrato Di Matteo e il Ministro della Giustizia Bonafede è significativo ben oltre il caso specifico di cui si discute, in quanto rivela tensioni e contraddizioni che in realtà covano da tempo dietro il fronte apparentemente unanime della lotta alla mafia. Quest’ultima registra infatti un larghissimo consenso sul piano delle azioni di tipo simbolico ed espressivo. A questo livello tutti si dicono ovviamente contro la mafia! Se si prendono però in esame le politiche da mettere in atto e gli interventi concreti, emergono opinioni e visioni molto contrastanti. Controversie ricorrenti riguardano il confronto tra politici e magistrati, ma divergenze significative sono presenti anche all’interno della stessa magistratura. Di tutto questo c’è tuttavia poca traccia nel dibattito pubblico: quasi mai la discussione riguarda concrete opzioni politiche, prevale piuttosto una logica di posizionamento, condizionata spesso da esplicite dinamiche di potere. È da questo punto di vista che la vicenda Di Matteo-Bonafede può essere considerata emblematica. In sintesi, può essere ricondotta a uno di quei casi in cui la dimensione simbolica legata alla lotta alla mafia finisce per coinvolgere inevitabilmente assetti ed equilibri di potere. Questo aspetto emerge chiaramente – a mio parere – se si prende in considerazione la rilevanza della figura del capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Un posto di rilievo innanzitutto politico: basti pensare che è equiparato – anche per quanto riguarda la remunerazione – a quello del Capo della Polizia, a quello del Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, al Comandante generale della Guardia di Finanza. Chi sta a capo del Dap è membro effettivo del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica; stiamo parlando quindi di un ruolo apicale di grande responsabilità politica.
Questo per dire che la posta in gioco di tutta questa polemica è variegata e investe un certo modo di intendere e di praticare la lotta alla mafia. Su questo sarebbe auspicabile un dibattito meno emotivo, al tempo stesso più composto e approfondito. Soprattutto sarebbe necessario e urgente ripoliticizzare la questione della mafia, considerarla cioè una questione politica e non un mero problema di ordine pubblico. Del resto, è proprio in quanto questione politica che essa costituisce un rischio serio per i tempi difficili che ci attendono.
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