17 maggio 2023
L’alluvione in Emilia-Romagna, così come le alluvioni dei mesi scorsi a Senigallia nel settembre 2022, a Catania nell’ottobre 2021, in Calabria e in Sardegna nel novembre 2020 e così via, non dovrebbero essere chiamate “disastri”, non dovrebbero essere considerate eccezionali, potrebbero invece essere occasione per ripensare come si struttura il rapporto tra umanità e ambiente.
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La parola “disastro” (dis-astro) indica un evento catastrofico attribuibile alla avversità degli astri, dunque alla superstizione o alla punizione divina. Oggi non dovremmo più usarla
La parola “disastro” (dis-astro) indica un evento catastrofico attribuibile alla avversità degli astri, dunque alla superstizione o alla punizione divina. Una visione tipica dell’ecologia degli antichi, in cui i fenomeni naturali vivono nel regno delle potenze misteriose e inquietanti. Alluvioni, incendi, siccità, terremoti, sono punizioni per atti devastatori non necessari perpetrati dall’avidità degli esseri umani. Questa interpretazione non andrebbe liquidata frettolosamente come premoderna e superstiziosa: l’ecologia degli antichi è fondata sulla relazione tra umanità e natura, in cui la natura è madre, divinità e specchio del sovra-mondano, e in questo quadro la parola dis-astro può aver senso. Ma oggi non bisognerebbe più usarla, o quantomeno non parlare di disastro naturale.
Con la modernità l’umanità si è affrancata dalle credenze di carattere magico-religioso e anche le manifestazioni naturali non sono avvolte nel mistero. Vanno piuttosto analizzate attraverso la scienza e dominate attraverso la tecnica. Il 1755 è l’anno che segnò simbolicamente il passaggio alla concezione moderna della natura e dei disastri, in occasione del terremoto di Lisbona. Nel dibattito che seguì all’evento, che causò 90.000 morti in Portogallo e 10.000 in Marocco, la natura non fu più associata a una divinità, ma razionalizzata, così come le responsabilità non furono attribuite all’ira degli dei, ma alla responsabilità umana che aveva permesso di riunire “in quel luogo ventimila case di sei o sette piani”. Queste parole provengono dalla Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona scritta da Jean Jacques Rousseau nell’agosto 1756.
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Da quel momento i disastri non sono stati più considerati naturali, né attribuiti ad astri avversi, ma controllabili, misurabili, governabili e dominabili attraverso la scienza. La stessa scienza che genera situazioni di rischio (emissioni di gas serra e riscaldamento globale, infrastrutturazioni e impermeabilizzazione dei suoli ecc.) è la medesima che ci fornisce strumenti per rispondere a situazioni di crisi. Per cui, se vogliamo chiamarli ancora disastri, almeno definiamoli “socio-naturali”, dal momento in cui le loro cause e le loro conseguenze non sono fortuite ma attribuibili all’azione umana. Nel caso specifico dell’alluvione in Emilia-Romagna, al cambiamento climatico e al consumo di suolo. Ovvero all’ammassare – come scriveva Rousseau – migliaia di case in luoghi densi.
Nel rapporto di Undrr e Cred, Human cost of disasters, sono censite 7.348 catastrofi in 20 anni (2000-2020), circa 1,23 milioni di vittime (60mila/anno), 4 miliardi di persone colpite, 297 miliardi di dollari di perdite. Eppure, il ricorso all’iperbole è tuttora il canone cui si fa ricorso per segnare l’eccezionalità di un disastro. Catastrofe, emergenza di massa, calamità, alluvione, cataclisma, sciagura e altre qualifiche tentano di inquadrare i disastri. Ma l’evento disastroso non può essere più inteso come eccezionale, irrompe sempre più frequentemente e va inteso come normale, specialmente nell’acuirsi degli effetti della crisi climatica. Basti pensare che la precedente alluvione con esondazioni e danni in Emilia-Romagna non risale a un secolo fa, ma a sole due settimane fa.
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E allora perché ricorriamo all’iperbole? Una prima ipotesi rinvierebbe alla ipocognizione, ovvero all’impossibilità di nominare qualcosa di indefinibile. Lo sforzo recente di trovare parole per definire il dolore della perdita di natura (ecological grief), le sensazioni del futuro minaccia (l’ecoansia), così come il ricorso a metafore apocalittiche rappresentano sforzi di governare cognitivamente la variabilità della natura, attribuendo all’eccezione ciò che non riusciamo a dominare con gli strumenti tecnologici e socio-culturali disponibili. Le ragioni di queste difficoltà sono comprensibili per chi vive direttamente un evento estremo. Nell’ormai notissimo saggio di Amitav Ghosh, La grande cecità, l’autore avvia la riflessione sul modo in cui parliamo di ambiente e di clima proprio a partire da un’esperienza diretta vissuta durante una “eccezionale” pioggia monsonica. Una pioggia fuori dall’ordinario o un inusitato ciclone, scrive Ghosh, rendono il cambiamento climatico qualcosa di più minaccioso e inquietante, qualcosa di spaesante: “Nell’angoscia, noi diciamo, uno è spaesato. Ma dinanzi a che cosa v’è lo spaesamento e cosa vuol dire quell’uno? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell’insieme”. Con i disastri si perde la propria posizione nello spazio, l’essere nel mondo e nel luogo nel senso di stare in un ambiente conosciuto, certo e prevedibile. Il paesaggio quotidiano non è solo GPS e incroci. Tutte e tutti noi abbiamo bisogno di riferimenti per orientarci nello spazio, abbiamo bisogno di un centro o di un simbolo del nostro paesaggio, degli odori di quella precisa geografia in cui si situano le nostre biografie. Il crollo o l’inondazione dei nostri punti di riferimento visivi, cognitivi, olfattivi, può farci sprofondare nell’angoscia di un ambiente incerto e imprevedibile.
La misura del danno alle cose e alle persone è il risultato dell’interazione stretta tra uomo e natura: l'uomo può rendere il territorio più vulnerabile
Proviamo ora ad unire i due ragionamenti fatti sinora, ovvero le responsabilità umane dei “disastri socio-naturali” e il loro carattere “non eccezionale”, per ripensare il rapporto tra umanità e ambiente. Il disastro, in altre parole, va inteso come un evento violento che irrompe in questo rapporto e non ne è estraneo. La misura del danno alle cose e alle persone è il risultato dell’interazione stretta tra uomo e natura. Nella terminologia attuale, la misura della responsabilità antropica dei disastri naturali viene definita vulnerabilità, ovvero l’insieme delle caratteristiche di un territorio che possono amplificare o ridurre il danno. È la spiegazione del perché un terremoto di pari magnitudo faccia danni alle cose e alle persone in misura molto differente tra un luogo a un altro. La vulnerabilità è ad esempio amplificata dall’ars ædificandi del territorio contemporaneo, che “con recidiva leggerezza” urbanizza “le riviere fluviali e le coste dei mari, le campagne più fertili, i fondovalle e i versanti instabili, seguendo gli interessi dell’economia di breve periodo, della finanza globale e della rendita, trattando i guasti ambientali, volta a volta, con protesi tecnologiche e compensazioni ecologiche”. Con queste parole Alberto Magnaghi descrive il territorio contemporaneo, criticando proprio l’irragionevole sorpresa con cui poi ci si accorge, ogni volta, che “i fiumi esondano, le colline franano, i ponti crollano e occorre disseppellire i morti, mobilitare ogni volta ingenti capitali, ingegneri, grandi imprese, per riparare alle emergenze, in una interminabile fatica di Sisifo”.
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Ci accorgiamo di essere vulnerabili nel presente, ma sappiamo che quanto accade è il prodotto del passato. “È la fine del mondo!” è un’esclamazione diffusa quando si vive un disastro. Riprendendo il titolo del volume-manifesto della cosiddetta collassologia, Un’altra fine del mondo è possibile. Vivere il collasso (e non solo sopravvivere), potremmo allora ricondurre lo spaesamento del presente per aprire una riflessione sul passato e sul futuro, usare il disastro per riconsiderare e ridiscutere esperienze e memorie, vocazioni territoriali e subculture, narrazioni e conoscenze dei nostri luoghi di vita. Così come concepire il nesso tra la crisi climatica e i suoi effetti locali e vivere pienamente la possibilità che il mondo, in quanto nostro mondo culturale e paesaggio esistenziale, possa finire, non per deprimerci, ma per arginare la fragilità dei territori urbani e rurali e trovare le popolazioni meno impreparate e soprattutto mai più soprese.
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