Le colline del Prosecco di Valdobbiadene. Foto di Alberto Caliman/Unsplash
Le colline del Prosecco di Valdobbiadene. Foto di Alberto Caliman/Unsplash

Bioavversità, le monocolture stanno distruggendo la tradizione agricola italiana

Il libro di Giannandrea Mencini Bioavversità si sofferma su tre eccellenze italiane – i vigneti del Prosecco in Veneto, i meleti della Val di Non in Trentino e i noccioleti del centro Italia – che oggi dominano interi territori, stravolti e danneggiati da un'agricoltura di tipo industriale

Francesco Sandri

Francesco SandriGiornalista

4 giugno 2023

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Nutella, Prosecco, mele Melinda: tutti hanno avuto questi prodotti nelle proprie case. Sono parte della nostra quotidianità. Il loro successo è enorme e non sarebbe possibile senza le tre colture su cui si basa la loro fortuna: il nocciolo, il vitigno Glera e la varietà di mele Golden delicious. Sono piante presenti da lungo tempo nel panorama agricolo italiano, specialmente nei territori in pendenza.

L’aumento vertiginoso della domanda ha però cambiato il loro impatto sul paesaggio, sull’ambiente e sulla società. In passato erano parte di un articolato sistema di produzione su scala familiare, associate all’allevamento di animali e ad altre coltivazioni. Oggi, invece, queste piante dominano interamente i territori dove crescono, trasformandoli in monocolture.

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L’espandersi dell’agricoltura specializzata nelle terre alte d’Italia è il filo conduttore di Bioavversità, l’ultimo libro di Giannandrea Mencini (Kellermann editore). L’autore accompagna il lettore in un viaggio quasi sempre in salita, sui versanti delle colline e nelle valli di montagna, le cosiddette terre alte. Luoghi che hanno conservato per lungo tempo una tradizione agricola incentrata sulla biodiversità, la sostenibilità e il rispetto per l’ambiente e le persone, ma che oggi sono drammaticamente intaccati da un’agricoltura di tipo industriale.

Monocolture, un problema anche Made in Italy

Le monocolture sono vaste porzioni di territorio coltivate con una sola varietà di pianta allo scopo di aumentare il più possibile la produzione. I dati sulle tre coltivazioni prese come esempio in Bioavversità, le colline del Prosecco in Veneto, i meleti della Val di Non in Trentino, i noccioleti in centro Italia, sono emblematici. Nei frutteti del consorzio Melinda maturano ogni estate 400mila tonnellate di mele. In Veneto e in Friuli vengono riempite ogni anno più di 700 milioni di bottiglie di Prosecco Doc (Denominazione di origine controllata) e Docg (Denominazione di origine controllata e garantita).

I vitigni Glera si estendono per 36mila ettari di terreno, mentre in alcuni comuni del Lazio l’80 per cento della superficie è piantumata a nocciolo. Scrive Mencini, che l’Italia si è trasformata in un “puzzle di monocolture”: distese di colore uniforme e pattern ripetitivi le cui ripercussioni si estendono al suolo, all’acqua, all’aria, alla salute e alla vita delle comunità rurali.

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Sono essenzialmente due le ragioni per cui le monocolture sono nemiche della biodiversità. La prima, più ovvia, è la specializzazione, che riduce la varietà delle piante e mette a rischio il patrimonio genetico agricolo, frutto di secoli di adattamento alle caratteristiche uniche dei territori. La seconda è l’utilizzo di tecniche invasive, finalizzate all’iperproduzione agricola, che non solo mirano a sostituire la varietà di boschi, prati e piantagioni precedenti ma, con l’uso di diserbanti e pesticidi, hanno l’effetto di distruggere ogni forma di vita, persino lungo i  bordi dei campi. È per questo motivo che le monocolture si presentano come deserti verdi e silenziosi.

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Abuso di pesticidi

L’utilizzo massiccio di fitofarmaci è una delle caratteristiche più preoccupanti dell’agricoltura specializzata. In provincia di Treviso, zona di produzione del Prosecco, ogni anno vengono utilizzati mediamente 36 kg di prodotti fitosanitari per ettaro coltivabile, contro una media nazionale di 4,3 kg. In Trentino la cifra sale a 57,4 kg/ettaro. L’impiego abbondante e su vasta scala di questi prodotti si traduce nella perdita di fertilità del suolo e nell’inquinamento dei corsi d’acqua. I cocktail di pesticidi – ossia l’insieme di più molecole utilizzate come erbicidi, insetticidi e fungicidi – sono rintracciabili ovunque ci sia una monocoltura coltivata in maniera convenzionale. 

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Nelle zone più esposte al rischio di contaminazione sono sorti comitati e movimenti che cercano di impedire o limitare l’uso di fitofarmaci, preoccupati soprattutto per gli effetti sulla salute umana. Un caso emblematico è la marcia Stop pesticidi, che si svolge ogni anno tra le colline del Prosecco (Conegliano e Valdobbiadene, in provincia di Treviso) e che dal 2017 raccoglie migliaia di adesioni. Altri comitati sono attivi in Trentino per contrastare l’uso degli antiparassitari vicino ai centri abitati. Nonostante alcuni successi di questi movimenti, la spinta del settore agricolo all’uso della chimica resta forte, e acqua, aria e suolo continuano a essere contaminate.

Un settore in espansione, nonostante gli allarmi

Sebbene le conseguenze negative delle monocolture siano note, la loro esistenza è in continua espansione, a discapito dei metodi più rispettosi dell’ambiente. La spinta più forte al sistema viene dal mercato e dalle logiche dell’iperproduzione. Il paradigma è semplice: intensificare, aumentare l’efficienza, crescere, vendere. Questi sono i dogmi di un settore agricolo sempre più finanziarizzato. Il campo diventa un investimento e il raccolto una rendita. Si spezza il rapporto tra il contadino e la terra.

Crescono le dimensioni delle aziende, il cui proprietario è sempre più spesso una figura esterna alla vita dei campi, e le colture vengono concentrate in poche mani. In Italia negli ultimi vent’anni il numero di aziende agricole si è dimezzato, mentre è raddoppiata la loro superficie media. L’1,5 per cento delle aziende agricole (quelle superiori ai 100 ettari) è arrivato a coprire il 27 per cento  della superficie coltivata.

Intensificare, aumentare l’efficienza, crescere, vendere: sono i dogmi di un settore agricolo sempre più finanziarizzato. Il campo diventa un investimento e il raccolto una rendita

Questo cambiamento nella gestione porta a dinamiche speculative sul valore della terra, che alimentano a loro volta la necessità di produzioni sempre più standardizzate e intensive. Del resto passare a una produzione biologica è possibile, ma non facilissimo. La normativa europea prevede un periodo di transizione di tre anni per poter ottenere la certificazione biologica.

Durante questo periodo l’azienda agricola deve utilizzare metodi biologici, continuando però a vendere i propri prodotti come convenzionali e quindi a un prezzo minore. Per di più, dove sono presenti le monocolture, l’uso di fitofarmaci elimina sia la biodiversità sia i sistemi naturali di difesa immunitaria delle piante, rendendo più difficile sfuggire all’uso della chimica.

Soluzioni a misura di terra 

L’orizzonte per le terre alte italiane potrebbe sembrare cupo, ma esistono diverse realtà che propongono un’alternativa all’agricoltura specializzata. Piccole aziende agricole che guardano ai saperi del passato, alle tecniche del presente e alla sostenibilità nel futuro. Mencini racconta di agricoltori che recuperano varietà antiche adatte al clima locale o che intraprendono azioni per favorire la biodiversità nei loro campi.

Le pratiche virtuose sono diffuse in tutte le regioni presentate nel libro, ma il caso più significativo è il caso di Castel del Giudice, in Molise. Un territorio che ha saputo resistere alla tentazione della monocoltura, diventando invece un’oasi di biodiversità che arricchisce il paesaggio e la società con i suoi meleti coltivati in maniera compartecipata e biologica.

Esistono diverse realtà che propongono un’alternativa all’agricoltura specializzata. Piccole aziende agricole che guardano ai saperi del passato, alle tecniche del presente e alla sostenibilità nel futuro

Il cambiamento verso un nuovo paradigma sostenibile è possibile, però necessita di politiche pubbliche e incentivi che favoriscano il passaggio a metodi di coltivazione rispettosi verso l’ambiente e la salute delle persone, come anche un'educazione che metta in risalto il valore di prodotti agricoli genuini e non standardizzati. 

In secondo luogo, i sistemi di produzione e distribuzione alimentare dovrebbero impegnarsi a ridurre la dipendenza dalle monocolture e supportare le piccole produzioni locali, oltre che a ridurre gli enormi sprechi presenti lungo tutta la filiera. Infine, un grande ruolo è giocato anche dai consumatori e dalle consumatrici, che possono decidere dove spendere i propri soldi per orientare le scelte di mercato. 

Gli scaffali dei grandi supermercati richiedono prodotti sempre uniformi, legati a un’agricoltura di tipo industriale, ma esistono i piccoli mercati cittadini, i gruppi di acquisto solidale e gli spacci delle aziende agricole in campagna. Tutti luoghi dove poter trovare le realtà che hanno un impatto positivo sulla diversità agricola e sull’ambiente. I loro prodotti potrebbero essere più cari di quelli artificialmente economici della grande distribuzione e cercare queste realtà richiede tempo ed energie. Ma ogni euro speso nella conservazione della biodiversità è un investimento importante nella salute umana e ambientale. Un seme piantato per il futuro dell’agricoltura sostenibile.

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