30 giugno 2023
Racconta Alexander Langer, politico ambientalista e pacifista, che da ragazzo un giorno chiese a sua madre perché suo padre non andava in chiesa. La madre gli spiegò che era di origine ebraica e che "non conta tanto in cosa si crede, ma come si vive". Parto da questa affermazione perché sono convinto che educhino molto di più il nostro corpo e le nostre posture piuttosto che le nostre parole e le nostre idee. Bambine e bambini si accorgono al volo della distanza che troppe volte separa parole e azioni di noi adulti. Se ne accorgono da dettagli che spesso non saprebbero indicare, ma che confermano i loro sospetti. Diffidano in particolare dei nostri ammonimenti per le troppe nostre incoerenze che li accompagnano. Questo è il primo motivo per cui educare è difficile. Se educare è letteralmente tirare fuori, sostenere e stare vicino a chi cerca di scoprire ciò che ha dentro e ciò che il mondo e i diversi linguaggi evocano in lui, è arduo farlo se non siamo disposti anche noi a tirar fuori qualcosa di ciò che cova al nostro interno, superando la paura di metterci in gioco.
Scuola, il sapere tradito. L'editoriale di Luigi Ciotti
Tutti ricordiamo l’esperienza di una porzione di arte o scienza che abbiamo incontrato e amato perché qualcuno ce l’ha presentata con convinzione e trasporto
A distanza di oltre mezzo secolo, ancora oggi "la scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde ". Questa frase, lanciata nel 1967 come accusa ineludibile dalle pagine di Lettera a una professoressa, era accompagnata da precise e documentate statistiche raccolte dai ragazzi di montagna a cui fece scuola per tredici anni don Lorenzo Milani. Ciò che è ancora vivo e vitale di quella singolarissima esperienza vissuta a Barbiana è che in quel caso non solo il mezzo era il messaggio, ma il modo in cui era stato forgiato il mezzo costituiva e costituisce ancora oggi il nucleo più prezioso di quel messaggio, costruito passo passo in nove mesi di intensa scrittura collettiva.
Quella lunga ricerca e le sue nitide conclusioni mostrano che la scuola si può trasformare in uno spazio collettivo di elaborazione culturale capace di aprirci gli occhi riguardo alla strada che è necessario compiere per renderla finalmente all’altezza della nostra Costituzione. Ancora oggi il 14 per cento di ragazze e ragazzi non terminano la scuola dell’obbligo e questo numero raddoppia per i figli delle famiglie immigrate. Ci sono città del Sud e periferie in molte regioni dove la dispersione scolastica supera il 30 per cento. A un ragazzo su tre è dunque negata un’istruzione di base perché possa esercitare con piena consapevolezza e strumenti adeguati i suoi diritti di cittadinanza.
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Piero Calamandrei, giurista, padre costituente e deputato nel primo Dopoguerra, sosteneva che la scuola è il luogo dove si compie il miracolo di trasformare i sudditi in cittadini. Sapeva bene che non si tratta di un miracolo, ma di un duro lavoro quotidiano che richiede impegno e dedizione, determinazione e coerenza. E allora credo che, per non accomodarci sulle nostre mancanze, abbiamo bisogno di maestre e maestri capaci di pungolarci e stimolarci. A volte li troviamo negli studenti e studentesse con cui lavoriamo a scuola, nelle nostre figlie e figli se genitori, in gigantesche figure del passato o in donne e uomini che abbiamo la fortuna di incrociare da vicino o da lontano.
Tutti ricordiamo l’esperienza di una porzione di arte o scienza che abbiamo incontrato e amato perché qualcuno ce l’ha presentata con convinzione e trasporto. Qualcuno capace di condividere il desiderio di conoscenza che gli suscitavano le ombre nella pittura di Caravaggio, il modo in cui ?echov tratta i suoi personaggi, l’infinito racchiuso nella radice di due, il suono della chitarra di Jimi Hendrix o il faticoso affermarsi dell’idea di uguaglianza nella storia. Senza quel tramite, senza l’incontro con quella passione incarnata, forse non ci saremmo mai affacciati a quel linguaggio o a quell’ambito del sapere, a quel mestiere, a quella tensione sociale o all’inquietudine che ci ha spinto a viaggiare o a cambiare città, che ha segnato il nostro destino. E allora domandiamoci: nella scuola di oggi è davvero garantito a tutte e tutti di incontrare stimoli e aperture capaci di farci uscire dalla nicchia antropologica in cui siamo nati e che talvolta risulta angusta e drammaticamente limitante?
Il cuore dell’educazione attiva sta nel costruire strumenti per arricchire le qualità e potenzialità di ciascuno alimentando la fiducia in sé stessi e, al tempo stesso, nella capacità di seminare inquietudine, cercando ogni modo per moltiplicare le domande
La peggiore offesa all’infanzia sta nel costringere bambine e bambini e adolescenti a trascorrere ore e ore a scuola insieme ad adulti pigri, demotivati e frustrati, a insegnanti che hanno smesso di ricercare e credere nella cultura come luogo di conoscenza di sé e leva di trasformazione individuale e collettiva. Il cuore dell’educazione attiva sta nel costruire strumenti per arricchire le qualità e potenzialità di ciascuno alimentando la fiducia in sé stessi e, al tempo stesso, nella capacità di seminare inquietudine, cercando ogni modo per moltiplicare le domande.
Seminare inquietudine dovrebbe essere un anelito costante in chi educa, con la consapevolezza che a scuola stiamo svolgendo una funzione politica nel senso più ampio e autentico del termine, cioè di allenamento all’arte del convivere e di cura del bene comune e della città presente e futura.
Non è affatto semplice contrastare le tante forme di discriminazione presenti nella società, che sono fonte di sofferenze che si moltiplicano nel tempo. Ma è assolutamente necessario in un paese che è al penultimo posto per numero di laureati in Europa e in cui, se sei nato da genitori non diplomati, in due casi su tre non terminerai i tuoi studi.
Sono convinto nel profondo che la cultura e la conoscenza non si possano trasmettere ma solo costruire e ricostruire, ciascuno a modo suo, se possibile insieme. Per farlo dobbiamo sperimentarci in un artigianato dell’educare, da arricchire e mettere a punto in continui confronti.
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Educare è liberare potenzialità, allargare gli sguardi, forgiare e mettere a punto insieme conoscenze e strumenti in grado di moltiplicare le possibilità di scelta di ciascuno. Questo è il secondo motivo per cui il mestiere dell’educare nella scuola è opera complessa, perché necessita da parte nostra una continua ricerca e messa a punto di materiali, stimoli, domande aperte.
Il terzo ostacolo sta nel mondo che ci circonda. Davanti alle tante storture che affliggono la convivenza umana e la nostra relazione con la natura e i suoi equilibri, a quale futuro educhiamo i più piccoli con credibilità, se noi delle generazioni adulte e anziane non siamo stati in grado di opporci a ingiustizie e discriminazioni che si moltiplicano e a un uso dissennato delle risorse, che sta alterando a tal punto il clima da rendere inabitabili porzioni sempre più vaste della terra? Da soli non ce la possiamo fare. Non ce la possiamo fare anche perché il grado di sofferenza di bambine e bambini e la fatica di vivere di un numero sempre più alto di adolescenti ci pongono nuovi problemi che necessitano ricerche approfondite in territori troppo poco esplorati.
È sempre più necessario, infatti, tessere collegamenti tra istruzione, educazione e capacità di cura dei singoli e delle relazioni reciproche. Relazioni a cui dobbiamo dare la possibilità di maturare e crescere trasformando in comunità di ricerca ogni singola classe, ma anche la scuola nel suo complesso e, con alleanze da costruire, porzioni del territorio che la circonda. Per questo dobbiamo coltivare amicizie, creare gruppi, rendere le nostre scuole luoghi di sperimentazione e non smettere mai di studiare e coltivare la nostra capacità critica e la nostra curiosità. Curiosità verso il mondo, le culture e i linguaggi in continua trasformazione, e curiosità verso le bambine e i bambini, le ragazze e ragazzi a cui pretendiamo di insegnare. Nella mia esperienza ho imparato che la cooperazione, il ricercare insieme, lo scovare o creare contesti in cui condividere dubbi e domande sono alleati necessari per intraprendere la delicata opera di educare controvento, non accontentandoci di come va il mondo.
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Il nodo allora sta nel dare davvero la parola ad alunne e alunni e fare del dialogo il perno attorno a cui innovare la didattica sperimentando che l’educare si fonda e si nutre sempre di reciprocità. Reciproco è una parola ci dovrebbe orientare sempre. È composta da recus e procus. Recus indica l’andare indietro, procus l’andare avanti. Prima c’è il passo indietro, la creazione di uno spazio vuoto e di un contesto capace di ascolto, solo dopo c’è il passo avanti, che permette di osservarci con attenzione, ascoltarci e accordarci insieme compiendo una sorta di danza in cui dobbiamo sperimentare la nostra capacità farci guidare, rinunciando all’idea di essere sempre noi adulti a condurre il gioco.
Mario Lodi, nel più noto dei suoi diari didatti, Il paese sbagliato, fa un’unica lunga citazione, tratta da un saggio dello psicologo e pedagogo svizzero Jean Piaget: "Lo scopo dell’educazione intellettuale non è quello di saper ripetere o conservare verità belle e fatte, perché una verità che viene ripetuta non è che una mezza verità: ma è piuttosto quello di apprendere e conquistare da se stessi il vero, a rischio di metterci molto tempo e di passare per tutte le traversie che una attività reale richiede. Non è possibile formare delle personalità autonome nel campo morale se l’individuo è sottoposto a una costrizione intellettuale tale che egli debba limitarsi ad apprendere a comando senza scoprire da se stesso la verità: se passivo intellettualmente non saprà essere libero moralmente".
La mezza verità evocata da Piaget mi fa tornare alla mente una frase detta in quinta elementare da Marianna, al termine di una ricerca durata mesi attorno all’affresco di Raffaello dedicato alla Scuola di Atene: "Raffaello ha fatto veri i filosofi per metà, noi li abbiamo fatti veri per l’altra metà". Quando l’ho ascoltata mi è sembrata la più nitida descrizione di ciò che inseguo da quando ho cominciato a insegnare. Marianna nomina infatti l’elemento chiave di ogni processo di apprendimento. Se tu non trovi il modo di fare tuo, di fare vero un quadro, un libro, un argomento di storia o un teorema matematico, se non lo riscrivi dandogli vita a modo tuo, con parole e sentimenti e ragionamenti che non possono essere che tuoi, quell’oggetto culturale rimarrà distante, inerte, morto.
I più veloci impareranno a memoria quattro parole che lo definiscono e magari sapranno anche rispondere a una verifica e far felici noi insegnanti, ma presto lo dimenticheranno. Ciò che più conta nel processo educativo sta nella lunga manovra di avvicinamento che con pazienza, preparazione e convinzione noi docenti dobbiamo predisporre e proporre per permettere a tutte e tutti di cercare la loro parte di verità nelle conoscenze che proponiamo di incontrare. Tutto ciò può avvenire solo facendo spazio e scegliendo di dedicare il più tempo possibile al dialogo, che deve divenire l’architrave del processo educativo.
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