17 novembre 2023
In una cittadina del nord est dell’Inghilterra, dove la popolazione non naviga certo nell’oro, giunge un gruppo di famiglie di profughi siriani. Principalmente donne e bambini, ma non solo: siamo nel 2016, a cinque anni dallo scoppio della guerra civile in Siria. È questo lo scenario intorno cui ruota il nuovo film di Ken Loach, The Old Oak, in concorso alla 76sima edizione del Festival di Cannes e al cinema da giovedì 16 novembre.
L’arrivo di questi forestieri (si sarebbe detto un tempo) non è da tutti salutato con entusiasmo: c’è diffidenza, mal celata ostilità, timore, pregiudizio. La giovane Yara (Ebla Mari), con la passione per la fotografia, conosce T. J. Ballantyne (Dave Turner), proprietario del pub The Old Oak, uomo solitario e gentile, che si accompagna con una piccola cagnetta. Yara è arrivata con la madre e tre fratelli, nella speranza che il padre possa raggiungerli il più presto possibile, anche se dell’uomo non ci sono molte notizie. Piano piano, la giovane ragazza conosce il passato del luogo in cui è arrivata: un piccolo centro legato all’attività mineraria, che è stata la principale fonte di sostentamento e di lavoro, anche se ormai appartiene a una stagione lontana. Ormai è prevalsa una strisciante povertà, che ha indotto tanti a badare solo ai propri interessi e sviluppare rigurgiti xenofobi o tentazioni razziste.
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Il fatto che Yara e T.J. vadano d’accordo è motivo di irritazione per alcuni clienti storici del pub, che rinfacciano all’uomo di essere più accogliente verso i profughi, che con chi conosce da una vita, magari dai tempi della scuola. Una parte della diffidenza inziale si stempererà, anche e soprattutto grazie alla sensibilità delle donne, al punto da pensare di mettere in pratica un’idea un po’ folle: usare una sala del pub, da anni dismessa, per creare un luogo dove si possa stare insieme, inglesi e siriani, condividendo lo spazio e soprattutto il cibo, riscoprendo un’antica solidarietà, cementata ai tempi degli scioperi dei minatori. Tra slanci di generosità e incomprensioni, scontri violenti e gesti di tenerezza, la vicenda si snoda arrivando a un finale amaro, ma che lascia intravedere la speranza.
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Loach e Laverty evidenziano quei meccanismi umani per i quali l’egoismo, l’ignoranza, la miseria intellettuale ancora prima che materiale, prevalgono sul buon senso, l’empatia, la solidarietà, la capacità di accogliere
Ken Loach, per l’ennesima volta con Paul Laverty alla sceneggiatura (hanno iniziato insieme nel 1996 con La canzone di Carla” sono al sedicesimo film), firma una pellicola di toccante attualità: racconta il nostro tempo, ma la sua Inghilterra potrebbe essere un qualsiasi posto del mondo, comunque più privilegiato dei paesi in guerra da cui giungono i profughi. Loach e Laverty non alzano mai la voce, ma evidenziano in maniera efficace, quei meccanismi umani per i quali l’egoismo, l’ignoranza, la miseria intellettuale ancora prima che materiale, prevalgono sul buon senso, l’empatia, la solidarietà, la capacità di accogliere e ancora prima di riconoscersi come simili negli altri.
Ken Loach, classe 1936, fa lo stesso film da almeno 30 anni: i temi centrali sono i medesimi, i personaggi, le dinamiche sociali e di classe. Cambiano solo i tempi e lui si adatta ad essi per raccontarli. Non c’è dubbio, però, su quale sia la parte da cui è schierato: quella dei deboli, degli schiacciati dalla storia, dei neoproletari urbani, dei sommersi – avrebbe detto Primo Levi- in qualunque parte del mondo si trovino. A suo modo, è una garanzia di coerenza. È lui the old oak, la vecchia quercia, che dà titolo al film.
E ci ricorda, ancora una volta e come ha dichiarato anche in questi giorni intervistato dai quotidiani italiani per l’uscita del film nelle nostre sale, che la soluzione sta nell’unità e nella politica, oltre al fatto che non abbiamo più quasi tempo per agire.
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