21 dicembre 2023
Cercate sul dizionario la parola pace. Se state consultando l’ultima edizione del Treccani, vi troverete davanti 86 righe di testo, divise in quattro definizioni e dieci accezioni diverse. Troviamo riprova di questa difficoltà di definizione anche nei dibattiti degli ultimi mesi, prima con la guerra tra Russia e Ucraina, poi con quella tra Israele e Gaza: tutti parlano di pace, e tutti dicono di volerla, ma ognuno la intende a modo proprio. In realtà, il dibattito non è nuovo. Di cosa sia e come la si possa ottenere, infatti, discutono da decenni anche i massimi studiosi delle relazioni internazionali.
Partiamo dalla prima definizione che compare sul Treccani: "Condizione di normalità di rapporti, di assenza di guerre e conflitti". Si tratta della concezione più minimalista, quella che lo studioso norvegese Johan Galtung definisce la pace negativa e che si pone come l’esatto contrario del termine guerra. La pace positiva è invece più esigente: non basta che le armi tacciano, ma serve che Stati e popoli si impegnino attivamente per promuovere l’armonia e "l’integrazione della società umana".
È la concezione che le Nazioni unite hanno sposato con la Dichiarazione per una cultura di pace adottata dall’Assemblea generale nel 1999, che cita come componente fondamentale "l’adesione ai principi di libertà, giustizia, democrazia, tolleranza, solidarietà, cooperazione, pluralismo, diversità culturale, dialogo e comprensione".
Guerra, la storia non ci insegna nulla
L’economista e pacifista anglo-americano Kenneth Boulding parla invece di pace instabile e pace stabile. La prima indica una condizione di assenza di guerra in cui però gli attori in gioco mantengono rapporti di diffidenza, che possono tradursi in sanzioni, dazi, spionaggio o nella corsa agli armamenti. L’ipotesi della guerra, quindi, è sempre all’orizzonte. C’è pace stabile, invece, quando gli stati nutrono rapporti di fiducia reciproca e cooperazione e non contemplano quindi il ricorso alle armi.
Altra questione è come ottenere la pace. Benjamin Miller, professore di relazioni internazionali all’Università di Haifa, in Israele, ha individuato quattro approcci alla questione. Il realismo offensivo dice che c’è pace quando un soggetto egemone riesce ad annientare le capacità militari dei potenziali avversari con l’uso della forza. In altre parole, fare la guerra per ottenere la pace.
Il realismo offensivo dice che c’è pace quando un soggetto egemone riesce ad annientare le capacità militari dei potenziali avversari con l’uso della forza
Il realismo difensivo, invece, pone come situazione ideale l’equilibrio tra le potenze, cioè la condizione in cui gli Stati più potenti accumulano armi ma non le usano, perché il solo fatto che esistano dissuade gli altri dal muovere guerra. La scuola liberista, invece, si fonda sulla convinzione che più gli Stati sono democratici e dipendono l’uno dall’altro economicamente, meno tenderanno a farsi la guerra.
Sul come raggiungere questo obiettivo si distinguono due approcci: quello offensivo intende imporre la democratizzazione e la liberalizzazione economica con la forza, mentre quello difensivo punta sulla diplomazia e altri mezzi di persuasione non violenti.
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