7 luglio 2024
Nel giorno delle elezioni europee, migliaia di comuni italiani sono andati al voto per scegliere anche il sindaco. Tra quelli interessati al rinnovo delle cariche amministrative ce n’erano anche alcuni che tornavano alle urne dopo diversi mesi di commissariamento a seguito di uno scioglimento per infiltrazioni mafiose. In tutto sette, di cui tre in Campania (Castellammare di Stabia, Torre Annunziata e San Giuseppe Vesuviano), due in Calabria (Soriano Calabro e Portigliola) e due in Puglia (Trinitapoli e Neviano). Aggiungendo ai sette quelli che nel passato sono stati oggetto di più scioglimenti, o il cui nome rievoca tempi bui nei quali il controllo delle mafie era molto pressante (si pensi a Casal di Principe, Corleone, Gioia Tauro, Manfredonia, Casapesenna, Castel Volturno, Castelvetrano o lo stesso Mesagne, luogo di nascita del fondatore della Sacra Corona Unita), il quadro è abbastanza ampio per trarre qualche valutazione sul modo in cui il sistema politico affronta il tema dei rapporti delle mafie con le amministrazioni comunali e qualche considerazione sull’utilità della legge approvata nel luglio 1991 sullo scioglimento dei consigli comunali e provinciali che si prefiggeva lo scopo di sanzionare i condizionamenti malavitosi sulla vita locale e al tempo stesso scoraggiare le relazioni tra esponenti politici, funzionari pubblici e mafiosi.
Comuni sciolti per mafia: numeri, motivazioni e conseguenze
Definire mafioso ogni voto che non premia chi si dichiara antimafioso è un’offesa al buon senso e un danno al movimento antimafia. Più preoccupante è l'assenza di candidati, come a San Luca
Intanto, va precisata una questione preliminare: il fatto che qualche sindaco-bandiera dell’antimafia non sia stato eletto o che abbia perso lo schieramento che con più tenacia si faceva portatore di un impegno contro le cosche non vuol dire automaticamente che abbia vinto un sindaco o uno schieramento favorevole ai rapporti con la mafia. Definire mafioso ogni voto che non premia chi si dichiara antimafioso è un’offesa al buon senso e un danno al movimento antimafia. Nelle elezioni comunali sono tanti i fattori che influenzano i comportamenti dei cittadini.
Ad esempio, ritengo che la non presentazione di nessuna lista nel paese paradigmatico di un certo strapotere della ‘ndrangheta in Calabria, cioè San Luca in provincia di Reggio Calabria, è l’episodio più preoccupante per l’antimafia rispetto alla mancata vittoria di alcuni candidati e schieramenti impegnati nella lotta alle mafie. In quel comune, sommando gli anni di commissariamento per condizionamenti ‘ndranghetisti agli anni di commissariamento per mancanza di aspiranti al ruolo di sindaco si scopre che sono di più gli anni in cui funzionari dello Stato a guidare la vita amministrativa di quelli in cui è stato in carica un sindaco democraticamente eletto. Per un lungo periodo è stata di fatto sospesa la vita democratica di un’intera comunità. Il movimento antimafia nel suo complesso può mai permettere una cosa simile senza una reazione adeguata?
San Luca cerca un'immagine diversa
Cos’è rimasto dello Stato o di una idea minima di democrazia quando vota meno del 20 per cento alle elezioni europee?
Altrettanto inquietante constatare che in diversi comuni calabresi si è giunti a livelli impressionanti di non partecipazione al voto. A Platì, altro comune simbolo del potere ‘ndranghetista, ha votato alle europee solo il 13,45 per cento degli aventi diritto, mentre a San Luca appena il 16,17 per cento! Cos’è rimasto dello Stato o di una idea minima di democrazia quando vota meno del 20 per cento alle elezioni europee? Se ci sono comuni dove non si trova un candidato a sindaco disposto a presentarsi alle elezioni per paura dei clan mafiosi o per timore di finire sotto i fari della magistratura o delle prefetture con l’eventualità di scioglimento per mafia? E se si considera il fatto che molti comuni dove si registra una partecipazione al voto così minoritaria sono stati guidati da funzionari delle prefetture e del ministero degli Interni, si è obbligati a fare un esame serio dell’utilità della legge stessa se alla fine si produce una totale disaffezione alla vita democratica e una estraneità allo Stato e alle sue prerogative di queste proporzioni.
“In certi paesi come Africo, Platì e San Luca, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi”
Stefano Massini, unico intellettuale italiano a porsi la questione, ha scritto un articolo da incorniciare sulla prima pagina de La Repubblica a proposito della situazione di San Luca, luogo di nascita di Corrado Alvaro (e caro ai tanti suoi estimatori) che invece è diventato il luogo per antonomasia della faida tra famiglie ‘ndranghetiste ed emblema dello Stato impotente a garantire la pratica della democrazia in luoghi di mafia. La sua proposta che in quel comune si presentino alle prossime elezioni Giorgia Meloni ed Elly Schlein alla guida di due liste alternative ha il fascino della provocazione illuminante.
Puntare i riflettori della politica nazionale su San Luca varrebbe come dimostrazione che non si è sordi al grido disperato di tanti cittadini che da anni non votano per il loro sindaco, e ogni volta che lo fanno si rischia che colui che è stato da loro scelto può finire ammazzato, in galera o scapparsene per non finire in galera, indagato o ammazzato. E sarebbe il caso che si presentassero come candidati a San Luca anche il ministro degli Interni e il ministro della Giustizia. Tornando con la memoria alle parole pronunciate nel 2007 dall’allora procuratore nazionale antimafia Piero Grasso dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia (“In certi paesi come Africo, Platì e San Luca, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi”) si può tranquillamente affermare che lo Stato a San Luca non ce l’ha ancora fatta!
Comuni sciolti per mafia, dalle difficoltà alla "terza via"
Anche in paesi dove il controllo mafioso è stato asfissiante, il tema non sembra appassionare gli elettori e men che mai le forze politiche, ma ciò non vuol dire affatto che si è tornati a una passiva accettazione dell’inevitabilità di questi rapporti
Entrando poi nel merito dei risultati più eclatanti in queste cittadine “sotto osservazione”, non si può che evidenziare una certa ambiguità di segnali. In ogni caso, non si può parlare affatto né di sconfitta dell’antimafia né tantomeno di suo successo. Guardiamo a Casal di Principe, dopo dieci anni di amministrazione di un sindaco esemplare come Renato Natale, con interessanti risultati amministrativi e civili, nessuna dei candidati a sindaco provenienti dal suo schieramento è andato al ballottaggio. Si può considerare questo risultato come un segnale di ritorno indietro quando le riunioni dei clan di camorra si facevano a casa del vicesindaco democristiano del paese? No, anche se è inquietante che la sera prima delle elezioni sono stati sparati colpi di mitra nel pieno centro del paese. Sta di fatto che, se lo schieramento “progressista” avesse presentato un solo candidato (e non tre come poi è avvenuto, tutti facenti parte dell’amministrazione Natale) il risultato sarebbe stato ben altro.
Situazione diversa a Castellammare di Stabia, una cittadina di più di 60.000 abitanti, culla storica della sinistra napoletana e meridionale. Ebbene dopo uno scioglimento del consiglio comunale per camorra, che ha colpito nel profondo l’opinione pubblica, ha vinto Luigi Vicinanza, ex direttore de l’Espresso un settimanale che ha fatto la storia delle inchieste sulle mafie in Italia. Risultato ancora da leggere bene quello di Torre Annunziata, cittadina di 40.000 abitanti anch’essa con solide tradizioni di sinistra, dove dopo un sindaco Pd mandato a casa da una ispezione del ministero che aveva accertato diversi episodi di condizionamento camorristico sugli amministratori locali, è stato eletto al ballottaggio un altro esponente del Pd anche grazie al fatto che il suo sfidante (un medico professore universitario) si era dovuto ritirare per delle vergognose dichiarazioni contro i gay.
Mentre a Corleone il candidato sostenuto da Totò Cuffaro, l’ex presidente della Regione Sicilia condannato a sette anni di carcere per rapporti con la mafia, ha vinto su candidati storicamente espressioni della fase di riscatto del paese di origine di ben due capi di Cosa nostra, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Mentre a Gioia Tauro è stata eletta per la prima volta una donna a sindaco e a Roccella Jonica e a Mesagne c’è stata la riconferma di un modello di buon governo, a dimostrazione che nel Sud si può essere amministrazioni efficaci lottando le mafie. Insomma, se in Sicilia, grazie anche alla lunga fase di riorganizzazione del sistema di potere mafioso, la politica sembra tornata alla disinvoltura del passato nel trattare questo argomento, in altre regioni i segnali non sono univoci. Sta di fatto che anche in paesi dove il controllo mafioso è stato asfissiante, il tema non sembra appassionare gli elettori e men che mai le forze politiche, ma ciò non vuol dire affatto che si è tornati a una passiva accettazione dell’inevitabilità di questi rapporti.
In conclusione, provo ad evidenziare tre questioni che mi sembrano centrali quando si affronta il tema dei rapporti tra organizzazioni mafiose e politica a livello locale.
Dalla Dia una proposta per fermare le mafie, ma non l'economia
Ma la lotta antimafia non è un pallino di orde di fanatici, di millantatori che hanno inventato un pericolo che non c’è o che l’hanno ad arte esagerato, o che hanno approfittato del pericolo mafioso per la loro carriera professionale
La prima. L’esigenza di tenere viva questa preoccupazione è ancora ampiamente suffragata da un fatto incontestabile: le mafie hanno come loro obiettivi l’impadronirsi o il condizionare molte attività economiche direttamente gestite dalle amministrazioni comunali. Abbassare la guardia su questo aspetto sostenendo che le mafie con i loro guadagni non hanno più interesse a condizionare la vita economica e politica locale, vuol dire stare fuori dal mondo. Ciò non significa che siamo tornati indietro ai tempi in cui quel dominio era assoluto, inestricabile e impunito. Molte cose sono cambiate a partire anche dal formarsi di una stabile opinione pubblica in grado di scoraggiare qualsiasi formazione politica o civica a ritessere rapporti evidenti con esponenti dei clan mafiosi. Anche questi ultimi debbono operare con maggiore discrezione rispetto al recente passato.
Ma la lotta antimafia non è un pallino di orde di fanatici, di millantatori che hanno inventato un pericolo che non c’è o che l’hanno ad arte esagerato, o che hanno approfittato del pericolo mafioso per la loro carriera professionale. Certo, qualcuno lo ha fatto, ma come si fa a dimenticare che le mafie hanno condizionato la vita politica locale e la storia d’Italia più di qualsiasi altro fenomeno strettamente criminale, e hanno procurato più vittime di qualsiasi altra forma di violenza dal 1861 in poi, escludendo le due guerre mondiali. In ogni caso meglio un eccesso di attenzione che il negazionismo su di esse che ha caratterizzato tutta la storia nazionale e sicuramente i primi trent’anni dell’Italia repubblicana.
Il pericolo mafioso è cambiato di intensità, certo, ma è anche cambiata la società attorno. L’azione di rottura dei vecchi equilibri tra mafia e politica, operata dall’azione della magistratura, si è incontrata con i cambiamenti profondi intervenuti nella società meridionale che non riuscivano prima ad affiorare pur scorrendo da tempo sotto la sua pelle. Ed è stato indubbiamente il movimento antimafia, o se si vuole l’atteggiamento della società meridionale verso le mafie degli ultimi decenni, a segnare il più vasto e significativo “scuotimento” civile e culturale del Mezzogiorno contemporaneo. I mafiosi in pochi decenni sono passati da uomini d’onore a delinquenti nella considerazione della maggior parte dell’opinione pubblica meridionale. Una rivoluzione culturale importantissima, questa, abbastanza consolidata anche se non sempre si manifesta plasticamente negli orientamenti elettorali.
Nel Sud non si può essere antimafiosi se non si lotta anche la clientela politica
La seconda. Nel Sud i cambiamenti profondi nel senso comune e nella percezione dei fenomeni criminali trova un limite nel sistema clientelare. Il convincimento che la clientela non esponga di per sé al pericolo del condizionamento mafioso è ampiamente diffuso. Si potrebbe dire che, se è abbastanza consolidata l’avversione ai sistemi mafiosi di controllo delle risorse locali, non lo è altrettanto ai sistemi clientelari di raccolta del consenso. Negli ultimi decenni anche il Pd è diventato meno intransigente su questo aspetto e molti suoi esponenti locali gestiscono la cosa pubblica con gli stessi metodi dei politici che un tempo contestavano.
Ora a tutti gli studiosi è noto il confine labile tra i due sistemi e l’inevitabile interconnessione che si produce a livello locale. Si può essere clientelari senza essere mafiosi, ma non si può essere esercitare un controllo mafioso delle risorse economiche senza passare per il sistema clientelare di gestione di esse. La battaglia antimafia sarà più complicata in futuro se non si dà sostegno a una campagna di massa contro la gestione clientelare della cosa pubblica. Nel Sud non si può essere antimafiosi se non si lotta anche la clientela politica. Il Pd ha un grande ruolo in questa battaglia, a cominciare dall’emarginazione dei suoi esponenti politici più compromessi su questo fronte.
Borghesia mafiosa e zona grigia: dove si incontrano mafie, affari e politica
In terzo luogo, bisogna porsi una domanda: è ancora utile la legge sullo scioglimento dei consigli comunali per mafia? Certo, questa legge non gode di grande empatia non solo tra i politici coinvolti ma anche tra la popolazione e gli elettori. Di tutte le norme antimafia varate negli anni, è sicuramente la meno efficace e la meno popolare. Ha contribuito a eliminare o a ridurre le problematiche che la giustificavano? A mio parere no. Siamo arrivati al quarto scioglimento per alcuni comuni e per molti si è superato il secondo e il terzo. In queste condizioni la legge trasmette un senso di impotenza dello Stato a fare fronte all’obiettivo che ci si era posti. E quando si trasmette questo senso di impotenza delle istituzioni, diventa tutto più difficile.
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