Polsi (Reggio Calabria), 2 settembre 2010. La processione verso il santuario della Madonna di Polsi, nel centro dell'Aspromonte, spesso utilizzato come pretesto per incontri dei vertici della 'ndrangheta (Foto di Franco Cufari/Ansa)
Polsi (Reggio Calabria), 2 settembre 2010. La processione verso il santuario della Madonna di Polsi, nel centro dell'Aspromonte, spesso utilizzato come pretesto per incontri dei vertici della 'ndrangheta (Foto di Franco Cufari/Ansa)

Il Santuario di Polsi è stato usato per i vertici di 'ndrangheta. I pellegrini possono alimentare la rinascita civica

Le carovane di fedeli al santuario della Madonna di Polsi, sull'Aspromonte, sono state spesso associate ai summit dei boss della 'ndrangheta. Stato e Chiesa hanno reagito, ma i luoghi sono abbandonati. I pellegrinaggi di credenti possono alimentare una presa di coscienza

Anna Sergi

Anna SergiProfessoressa in Criminologia, University of Essex (Uk)

3 settembre 2024

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Una maglietta bordeaux con l’immagine di Maria della Montagna, la Madonna di Polsi, stampata sul davanti e una scritta dietro “Carovana di Santa Cristina d’Aspromonte” sul retro: la portiamo tutti, anche se alcune hanno tonalità diverse perché realizzate negli anni passati. Un centinaio di persone, con le magliette addosso, pronti “o chianu da funtana”, cioè al piazzale della fontana, alle sette di un mattino di metà agosto. Gli zaini si collocano nelle jeep o sul camion che seguiranno i pellegrini fino al Santuario, così da camminare più leggeri.

Per arrivare a piedi da Santa Cristina a Polsi, nel cuore dell’Aspromonte, ci vogliono circa dieci ore; il dislivello è notevole, dai 600 ai 1400 metri, per poi riscendere agli 800 del Santuario. Il tutto tra le mille sfumature di verde della Montagna, le mucche che si aggirano indisturbate tra le valli (le chiamano “vacche sacre”, non vanno toccate, non si sa a chi appartengano ma è meglio evitare di infastidire i loro proprietari…), e le tante soste per bere acqua, tè o anche birra fresca e mangiare qualcosa, a suon di tarantella, con tamburelli e organetti, invocando “Evviva Maria”! Nei tratti più agevoli si recita il rosario e si intonano i canti popolari dedicati a Maria di Polsi. Qualcuno ha stampato fotocopie per chi non ricorda i testi o è arrugginito con l’uso del dialetto. La Madonna di Polsi, infatti, parla la lingua della sua gente. In dieci ore, tra arrampicate e discese giù dal costone della Montagna, la fede sublima la fatica.

“Quel mondo lì”, la ‘ndrangheta a Polsi

Chi vive Polsi e la sua fede ha una percezione molto diversa sia della ‘ndrangheta, che co-abita quei luoghi ma non è certo l’unica sua componente, sia dei problemi del territorio

In questi luoghi, dicono i pellegrini, ci si conosce tutti. Se si incontra Tizio o Caio in Montagna, ci si saluta, anche se si sa che costui fa parte di ‘quel mondo lì’… si accelera e non ci si pensa più. È parte “del territorio”, ci si convive. Fuori dall’Aspromonte e dai suoi paesi, “quel mondo li” – il mondo di ‘ndrangheta che in questi paesi è nato, cresciuto e ancora qui dimora – è tutto ciò che spesso si vede, tutto ciò che si cerca, a Polsi soprattutto.

Difficile resistere alla seduzione delle immagini e dei video delle riunioni di ‘ndrangheta al Santuario pubblicate dopo grandi operazioni antimafia; ancora più difficile raccontare la complessità delle relazioni sociali tra Polsi, i pellegrini, i fedeli, e gli ‘ndranghetisti che pure sono stati o sono pellegrini e fedeli. La Madonna accoglie chiunque, la fede qui è pratica intima e privata, piaccia o no. Chi vive Polsi e la sua fede ha una percezione molto diversa sia della ‘ndrangheta, che co-abita quei luoghi ma non è certo l’unica sua componente, sia dei problemi del territorio, spesso molto più “banali”, certo meno spettacolari, di narcotraffico, faide, e intimidazioni mafiose. Problemi che variano dalle strade per il Santuario ormai semi-distrutte, all’assenza di servizi per i pellegrini, dall’abbandono dello Stato al senso di alienazione rispetto alle stesse istituzioni ecclesiastiche.

Don Italo Calabrò, pioniere dell'antimafia sociale

La Carovana, però, è un fermento di solidarietà e di cooperazione, che si attiva grazie al pellegrinaggio e alla fede condivisa. Il paese si organizza, u procuraturi – cioè il capo-carovana, che a Santa Cristina è un ragazzo di 35 anni – si prende la briga anno dopo anno di tutte le incombenze, tra cui raccogliere i contributi, prenotare le stanze al Santuario, persino fare le nuove magliette. Si cucina e si spartisce ciò che è stato preparato; si mettono a disposizione macchine e furgoni per portare tutto al seguito dei pellegrini. Si pensa alla musica e al canto, c’è chi intonerà il rosario e chi farà u mastru della tarantella, gestendo “il cerchio” della danza più anarchica e ritmata che esista. Questa solidarietà dal basso, retta da una fede millenaria, da una leggenda affascinante come quella che vede la Sibilla Cumana cedere il passo del suo antro di Polsi alla Madonna, resiste in un contesto istituzionale ed ecclesiale percepito sempre più ostile, sempre più scoraggiante. Persino il bar della piazza del Santuario è stato chiuso (e chissà semmai sarà riaperto) perché non a norma; ma i pellegrini reagiscono interfacciandosi direttamente con Maria, danzando, pregando e suonando, anche senza intercessione dei ministri di Chiesa.

La chiesa reagisce, ma Polsi è abbandonata

La carovana del pellegrinaggio da Santa Cristina d'Aspromonte a Polsi (Foto di Anna Sergi)
La carovana del pellegrinaggio da Santa Cristina d'Aspromonte a Polsi (Foto di Anna Sergi)
Si può ipotizzare che, in “assenza di ‘ndrangheta” e dell’ordine mafioso sul territorio, cresca in alcuni il timore che la gente della Montagna “si faccia sentire”, che reclami un ruolo attivo nella gestione del territorio

L’attuale rettore di Polsi, don Tonino Saraco, è stato molto chiaro sulla denuncia e la condanna della ‘ndrangheta, così il vescovo di Locri e Gerace, monsignor Francesco Oliva, in linea con la scomunica di Papa Francesco e i messaggi No alla mafia divulgati dalla Conferenza episcopale calabra. Sono buone notizie, specie considerando che il precedente rettore, don Pino Strangio, ha sulle spalle una condanna in primo grado a oltre 9 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Non può esservi più alcun dubbio che il culto di Polsi debba essere separato dagli uomini di mafia che l’hanno manipolato.

E allora perché, viene da chiedersi, tutto sembra voler indurre i pellegrini all’abbandono del luogo, tutto sembra voler spegnere la socialità di queste reti popolari che si accendono anche nella voglia di ballare, che non sopiscono ma anzi esaltano la volontà della gente di urlare “Evviva Maria!”? Perché questo continua a succedere anche adesso che si condannano pubblicamente mafia e mafiosi sul territorio? Possibile che la volontà di allontanare la ‘ndrangheta da Polsi produca un impatto positivo anche sul resto del territorio e sulla sua gente, che alcune “autorità” hanno interesse a depotenziare? In altre parole, si può ipotizzare che, in “assenza di ‘ndrangheta” e dell’ordine mafioso sul territorio, cresca in alcuni il timore che la gente della Montagna “si faccia sentire”, che reclami un ruolo attivo nella gestione del territorio.

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Da manifestazione di fede a speranza di rinascita civca

Il pellegrinaggio, non più funzionale alla legittimazione del potere mafioso, né più soltanto manifestazione di fede anacronistica e primordiale in un luogo “irredimibile”, potrebbe allora alimentare oggi una speranza di rinascita civica. Se questo passaggio c’è stato o è in corso – eliminando o rendendo ininfluente la presenza della ‘ndrangheta a Polsi – quelle “autorità” forse hanno bisogno di individuare altre strategie per preservare lo status quo.

Quando finalmente si indebolisce il controllo mafioso sul territorio, una mobilitazione popolare, che reclama attenzione alla fede condivisa e cura del territorio, non è facilmente controllabile, specie se aggira l’intermediazione della Chiesa e sopperisce all’incuria dello Stato. Senza quell’ordine coercitivo si potrebbe arrivare dal basso a una presa di coscienza, sorretta tanto dalla solidarietà quanto dalla fede, del ruolo delle comunità come custodi della Montagna e del territorio, nella giusta aspettativa che venga loro data finalmente voce. E la Carovana dei cristinoti è già protagonista di questa presa di coscienza.

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