30 settembre 2024
All’inizio del sedicesimo secolo, senza aver visto Cristoforo Colombo tornare dal suo viaggio transoceanico, perché rapito da un gruppo di indigeni ai Caraibi, gli europei vedono invece sbarcare sulle coste del Portogallo gli Inca di Atahualpa: saranno loro i conquistadores, e il Vecchio Continente la terra di conquista. Qualche secolo più tardi, precisamente nel Novecento, la Germania nazista e le forze dell’Asse vincono la Seconda guerra mondiale, e mentre sull’Europa post-bellica si impone l’ombra del Reich, fino alla Russia, gli Stati Uniti d’America vengono spartiti in zone d’influenza tra la stessa Germania nazista (a est) e il Giappone di Hirohito (a ovest).
Cosa sono, queste due bizzarre affermazioni? Forse farneticazioni di uno studente troppo fantasioso? No, tutt’altro. Tratta di ucronie, ovvero ipotesi che raccontano come sarebbe stata la storia se avesse preso un altro corso.
Le due con cui abbiamo cominciato nascono dall’estro del romanziere francese Laurent Binet (autore di Civilizzazioni del 2019, pubblicato in Italia da La Nave di Teseo nel 2020) e del più famoso scrittore di culto statunitense Philip K. Dick (autore de L’uomo nell’alto castello, romanzo del 1962 incluso dal 2022 nel catalogo Mondadori, ma già passato nei decenni scorsi per altri editori con il titolo di La svastica sul sole).
Genere di elezione della narrativa fantascientifica e fantastica spesso oscurato dall’utopia (dal greco ou e tópos, ovvero “che non è in nessun luogo”), l’ucronia (dal greco ou e chrónos, ovvero “che non è in nessun tempo”) serpeggia nella letteratura in maniera più o meno sotterranea da molto tempo, almeno da quando Ludovico Ariosto, nell’Orlando Furioso, fece spingere i mori ben oltre Poitiers, fino a renderli protagonisti di un assedio di Parigi mai realmente avvenuto.
Ed è proprio al genere dell’ucronia che Emmanuel Carrère (autore, tra l’altro, della straordinaria biografia romanzata da cui è tratto il meno straordinario film Limonov, oggi nelle sale cinematografiche) dedica Le Détroit de Behring. Introduction à l’uchronie, libretto di recente tradotto per Adelphi da Federica Di Lella e Giuseppe GirimontiGreco.
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Non è uno dei grandi romanzi che il lettore di Carrère si aspetterebbe di leggere. Né uno dei testi di ampio respiro saggistico cui pure l’autore francese ci ha abituati. Piuttosto una riflessione agile e decisamente accessibile, ma senza dubbio in bello stile, scritta nel lontano 1987 e mai soggetta ad alcun processo di editing successivo, e per questo necessariamente un po’ incompleta, Ucronia ripercorre vicende nate da ipotesi che oggi sembrano assai stranianti, come la storia successiva alla vittoria di Napoleone in Russia, o quella che segue la liberazione di Gesù da parte di un Pilato che non se ne lava le mani. O ancora quella, già citata in apertura, che prende il via dopo la vittoria dell’Asse sugli Alleati.
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Tutte storie che, oltre a farci immaginare presenti alternativi, portano a interrogarsi sulla Storia stessa, con la S maiuscola, e sulla sua necessità: “L’ucronia infatti”, come ben sottolinea Carrère, sembra disegnare “solo uno dei tanti possibili [mondi reali], una traiettoria singola, immaginata da un individuo a partire da scelte arbitrarie. E l’universo in cui viviamo non vale molto di più”.
Materia dunque assai intrigante, l’ucronia, e pure assai delicata, giacché a volte può trasformarsi anche in “uno strumento di potere”, e di certo molto spesso è diventata “una forma di discorso politico”, se non addirittura un dispositivo nelle mani dei regimi dittatoriali intenzionati a condannare alla damnatio memorie personaggi scomodi, come successo al povero Lev Trockij, costretto, oltreché all’esilio e alla morte, anche a un tentativo di eliminazione da libri e fotografie da parte di Stalin.
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Lungi dall’essere un procedimento speculativo esclusivamente romanzesco o un’arma retrospettiva nelle mani dei dittatori, l’ucronia può essere considerata anche alla stregua di un esercizio consolatorio che alberga nell’animo di tutti noi quando, per un motivo o per l’altro (leggi per un fallimento o per un altro), proviamo a rappresentarci come sarebbe stato il nostro presente se solo nel passato non avessimo fatto quella data cosa, se solo non fosse successo quello che è successo.
Esercizio forse inconcludente, in fin dei conti. Ed ecco perché, conclude Carrére, in certi casi “bisognerebbe allontanarsi dall’ucronia, dagli universi paralleli, dal rimpianto di cui sono pervasi, e avventurarsi nel territorio della realtà”.
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