22 agosto 2023
La produzione letteraria (e cinematografica) legata ai temi della fine del mondo per come lo conosciamo, che molto spesso coincide con la fine della società e del consorzio umano, ha una tradizione piuttosto consolidata già nel Novecento, una tradizione post-apocalittica che si è andata rafforzando nel tempo, segmentandosi in varie sotto-branche in cui la fine del mondo è generata da eventi singolari e improvvisi, espressione delle paure e delle ansie che hanno colpito gli esseri umani nelle varie fasi del recente passato: invasioni di alieni, pandemie, guerre atomiche, maxi-terremoti, eruzioni vulcaniche, mutazioni animali e così seguire. Generalmente, le narrazioni post-apocalittiche che rientrano in questa grande e sommariamente descritta categoria ci portano, come lettori (e spettatori), in un mondo già collassato in cui qualche sparuto gruppo di superstiti, o anche un singolo individuo, vaga alla ricerca di una salvezza spesso impossibile nello scenario sterminato del mondo del “dopo”.
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In tempi recenti, tuttavia, il racconto della fine del mondo ha assunto nuove caratteristiche, utilizzando a fini narrativi i temi legati alla crisi climatica e dando in tal modo concretezza all’eco-ansia e alle paure legate al disastro ambientale. È così che si è generato il filone letterario della cosiddetta eco-distopia. Come suggerisce Marco Malvestio nel suo Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e antropocene (nottetempo, 2021): “Nella narrativa contemporanea il racconto del climate change adotta […] in parte i modi della letteratura apocalittica, e in parte quelli, più sobri, della distopia, in una forma specifica che si può definire eco-distopia”. Nell’eco-distopia la fine del mondo (o anche il declino dello stesso) è causata, come la crisi climatica attuale, non da un solo grande evento, bensì da una serie di concause inestricabili e gradualmente emergenti, la cui genesi risulta piuttosto complessa, essendo legata a durevoli comportamenti individuali e collettivi. “In questo senso – continua Malvestio – il racconto del disastro ecologico non è, strettamente parlando, un racconto apocalittico, perché non narra un mutamento improvviso: è semmai più vicino alla distopia, che si focalizza su presenti alternativi o immediati futuri dipinti negativamente a partire da un’esasperazione di alcuni singoli tratti della realtà dell’autore”.
Nell’eco-distopia la fine del mondo (o anche il declino dello stesso) è causata, come la crisi climatica attuale, non da un solo grande evento, bensì da una serie di concause inestricabili e gradualmente emergenti, la cui genesi risulta piuttosto complessa, essendo legata a durevoli comportamenti individuali e collettivi
Endemica nel contesto anglosassone, dove d’altronde la letteratura post-apocalittica e distopica ha da sempre trovato grande seguito, l’eco-distopia si ritaglia uno spazio anche nel contesto italiano, accumulando in una quindicina d’anni un numero considerevole di romanzi, tanto di nicchia quanto di largo consumo. Pescando da questa consolidantesi “tradizione” eco-distopica italiana, vogliamo qui segnalare cinque romanzi che hanno rappresentato il lento e complesso percorso verso la fine del mondo per come lo conosciamo nello scenario di città o di territori del nostro Paese. Andremo così a Genova, Milano, in Veneto, a Sassari e Roma, per abbozzare così una parziale geografia eco-distopica dello Stivale.
Cominciamo con Bambini Bonsai di Paolo Zanotti (Ponte alle Grazie, 2010), romanzo di taglio fantastico ormai annoverabile tra i “classici” dell’eco-distopia italiana. Qui ci viene raccontata una società in cui un primo grande collasso è già avvenuto, una società che tenta tuttavia di riorganizzarsi sotto nuova forma, e con ovvie difficoltà. Siamo a Genova, nello scenario dirupato e dissestato di una città vittima dell’innalzamento delle acque mediterranee, una brodaglia venefica che con i suoi miasmi ha causato a poco a poco la morte dei pesci e degli uccelli marini. L’arsura atmosferica e il calore costante che hanno fuso i ghiacci vengono però improvvisamente interrotti da tifoni devastanti che sgretolano i rilievi: “Il mare si era alzato, le valli e i monti, percossi dalle piogge, erano smottati, così che insieme, dal basso e dall’alto, avevano stretto in una morsa la materia della città, che era sgusciata via, scartata di lato come argilla quando provi a schiacciarla nella mano, aveva colmato ogni radura, si era raccordata con gli altri centri abitati ed era diventata un’unica città, una città serpente da dove il sole nasce incandescente fino a dove per qualche ora muore”.
Siamo a Genova, nello scenario dirupato e dissestato di una città vittima dell’innalzamento delle acque mediterranee, una brodaglia venefica che con i suoi miasmi ha causato a poco a poco la morte dei pesci e degli uccelli marini
In quest’ambientazione urbana che l’autore descrive con note più oniriche che apocalittiche, per lunghi tratti fiabesche, e senza mai indulgere nella retorica nera della catastrofe tipica della letteratura post-apocalittica, si muovono i bambini a cui fa riferimento il titolo: esseri metà umani e metà animali che abbisognano di varie mute in acqua prima di diventare maturi, esseri che tuttavia sembrano gli unici in grado di accettare il nuovo mondo e di viverlo quale è, nonostante gli eventi climatici estremi che lo caratterizzano. Mentre nel frattempo gli adulti, da parte loro, sono costretti tra le mura domestiche, vittime di un’irreprimibile paura.
Nella Milano di un futuro post-pandemico non troppo distante dall’oggi è invece ambientato Noi siamo campo di battaglia (Zona 42, 2022), libro polifonico e dalla struttura complessa firmato da Nicoletta Vallorani, autrice riconosciuta come una delle maggiori voci della fantascienza italiana. Scritto con evidenti ed esplicite intenzioni politiche, condivide con Bambini bonsai un certo ottimismo di prospettiva, dato che anche in questo caso è un gruppo di giovanissimi intraprendenti (adolescenti, nella fattispecie) ad avere il ruolo principale: a loro è affidato l’onere della ricostruzione, non propriamente delle macerie quanto piuttosto dell’ordine sociale, funestato da un sistema che, disinteressandosi per lungo tempo delle ultime generazioni, ha portato il mondo allo sfacelo.
Le stagioni sono infatti impazzite: lunghissimi inverni si alternano ad altrettanto lunghe e imprevedibili estati, la pianura padana è ormai diventata un golfo, e talvolta l’odore della salsedine raggiunge anche Milano, così come la sabbia del deserto, che ormai ha ricoperto l’affranta pianta urbana di una coltre polverosa di abbandono
Le stagioni sono infatti impazzite: lunghissimi inverni si alternano ad altrettanto lunghe e imprevedibili estati, la pianura padana è ormai diventata un golfo, e talvolta l’odore della salsedine raggiunge anche Milano, così come la sabbia del deserto, che ormai ha ricoperto l’affranta pianta urbana di una coltre polverosa di abbandono. In questo scenario, una nutrita schiera plurale, multietnica, multiabile e queer di personaggi pittoreschi prende stanza in una vecchia scuola abbandonata, “il Vivaio”, muovendo protesta in forma collettiva verso il violento e repressivo ordine vigente, e cercando al contempo di curare un inverosimile giardino di ulivi e pomodori, inspiegabilmente germogliato nonostante l’ubiquo dominio del cemento, sparso dagli umani su ogni lembo di terra: “Noi siamo la generazione compost” dice in rappresentanza di tutti uno dei protagonisti del romanzo. “Noi siamo quelli destinati a preparare un mondo che non vedremo. […] Fertilizziamo il futuro”.
Un Veneto desolato dell’immediato, prossimo futuro fa invece da scenario al fortunato romanzo XXI Secolo di Paolo Zardi, pubblicato nel 2015 dalla casa editrice abruzzese Neo ed entrato nello stesso anno nella dozzina finalista del Premio Strega. Se in Noi siamo campo di battaglia e in Bambini bonsai la dimensione apocalittica della catastrofe ambientale trasfigura in maniera più che consistente il (nostro) reale, dando alla narrazione una direzione decisamente fantastica, qui ci troviamo immersi in una versione del futuro quasi realista, ovvero non troppo distante della nostra attualità: l’umanità allo sbando e gli scenari degradati descritti da Zardi hanno fatto soltanto qualche passo più in là rispetto ad oggi, ormai inghiottiti dai rifiuti e da un inverno che pare non voler finire: “Il cielo pisciava da così tanto che nessuno ricordava più l’ultimo sole. L’inverno pareva non intenzionato a mollare la presa sull’emisfero boreale”.
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Protagonista del romanzo, classico per struttura e svolgimento di trama, è un agente di vendita a domicilio di depuratori d’acqua che, come tutti, cerca di andare avanti nella sua vita quotidiana, pur essendo immerso in un dramma familiare di perdita che trasferisce nel privato le ugge del mondo: una vicenda di dolori privati e personali a cui fa da sfondo il disfacimento dell’Occidente, l’inarrestabile immiserimento del suo modello societario, la degradazione fisica e morale dell’ambiente, con la luce che lascia spazio a “un buio archetipico”, mentre le città sono colpite da continui blackout. E mentre alla frontiera con l’Austria gli italiani, avviliti e miseri, vengono respinti se privi di un buon motivo per tornare in patria.
Come in XXI Secolo, anche qui il collasso non è ancora avvenuto in termini definitivi, in termini cioè da aver già riconfigurato l’ordine sociale (o semplicemente umano) in maniera del tutto nuova, ma ci siamo molto vicini
Pubblicato dallo stesso editore di XXI Secolo è Mette pioggia, romanzo del sardo Gianni Tetti edito nel 2014. Come in XXI Secolo, anche qui il collasso non è ancora avvenuto in termini definitivi, in termini cioè da aver già riconfigurato l’ordine sociale (o semplicemente umano) in maniera del tutto nuova, ma ci siamo molto vicini. Ci troviamo a Sassari, in una Sardegna non troppo dissimile da quella di oggi, spazzata di continuo da un caldo vento di scirocco che inaridisce la terra e spande sulle case e sulle persone polvere e principi morbosi, favorendo il proliferare dei ratti e il rapido espandersi di una malattia misteriosa a cui quasi nessuno sembra dare il giusto peso: “Sardegna, scirocco killer, moria di anziani, cani e bambini. Tutti morti. Chiudersi in casa. Colpa dello scirocco. E i topi che uscivano dalle fogne e correvano in strada. E le signore spaventate. E gli incendi”.
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Il libro, suddiviso in sette capitoli, tanti quante sono le giornate dell’ultima settimana dell’umanità (come suggerisce la quarta di copertina), ci porta nelle vicende quotidiane di alcuni personaggi che vivono nella stessa strada cittadina condividendo una rabbia crescente e una solitudine tanto profonda da rinchiudere i rispettivi spazi individuali in un continuo rivolgimento solipsistico nel sé, ben caratterizzato dall’autore grazie a una prosa colloquiale, tagliata, secca e priva di barocchismi che opera tramite imprecazioni, vernacoli e ossessive ripetizioni, così da insistere efficacemente su un senso di oralità asfissiante e asfissiata, in linea con il clima che fa da sfondo alla narrazione. Nonostante tutto questo, però, il romanzo si presenta come una godibile commedia nera in grado anche di far sorridere i lettori, per quanto amaramente, benché rappresenti l’ultimo terribile atto di una catastrofe annunciata.
Ambientato nelle periferie romane di sud-est, ha come protagonista Giovanni, figlio marginale di un sottomondo lumpen impegnato (o meglio condannato) a vagare attraverso una “città immobile e scoperchiata” che man mano sembra compiere definitivamente il proprio scopo, ovvero mostrare al presente le rovine del passato, e non più ad uso principalmente turistico
Nei testi fin qui descritti la dimensione della crisi climatica, più o meno presente, è senza dubbio uno dei motori della narrazione, portando gli autori a descrivere scenari collettivamente esausti e/o incattiviti anche dal punto di vista politico-sociale, con o senza speranze per il futuro. Si tratta, in sostanza, di eco-distopie a tutti gli effetti, almeno secondo la definizione qui data in apertura. Leggermente diverso è il caso del libro che chiude questa nostra “selezione”, ovvero Voragine (Il Saggiatore, 2018), romanzo di esordio di Andrea Esposito, finalista nel 2017 al Premio Calvino. Si tratta di un libro che, pur avendo tutte le caratteristiche per poter essere definito eco-distopico, nasce probabilmente con altre intenzioni, nella misura in cui la città che vi è descritta, con il suo clima inclemente, con la sua umanità corrotta e laida, pare più un paesaggio morale, la proiezione di uno sguardo allucinato e affranto.
Ambientato nelle periferie romane di sud-est, ha come protagonista Giovanni, figlio marginale di un sottomondo lumpen impegnato (o meglio condannato) a vagare attraverso una “città immobile e scoperchiata” che man mano sembra compiere definitivamente il proprio scopo, ovvero mostrare al presente le rovine del passato, e non più ad uso principalmente turistico.Giovanni, vagando tra le vestigia degli acquedotti di epoca romana e le mura aureliane, non incontra infatti altro che i resti di un’epoca più recente, la nostra, e poi rottami, incendi, miseria, imbarbarimento dei costumi, con il freddo che avanza inesorabile giorno per giorno, stringendo nella sua morsa gli umani e i cani, esseri spesso incarogniti o afflitti che cercano un posto in cui stare tra quel che resta del mondo: “Il freddo è cresciuto. Il peggior freddo degli ultimi anni. Un’ondata di freddo straordinaria. Anomala. L’inverno peggiore del secolo. Anche se l’inverno doveva essere finito”.
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