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Aggiornato il giorno 23 settembre 2025
Giancarlo era così: allegro, felice, innamorato della vita, amava lo sport e lo praticava. La sua Mehari, una jeep scoperta, di un vivace colore verde, lo rappresenta alla perfezione. L’auto di plastica di un giornalista senza protezioni, che raccontava da un territorio difficile gli affari dei clan. Ma non solo, scriveva delle crisi delle fabbriche che chiudevano, di droga e tossicodipendenze, di scuole in difficoltà, del disagio giovanile, di muschilli. Voleva solo fare il giornalista. Ma se racconti fatti scomodi, se sveli che un clan mafioso, di Marano, fa arrestare un boss di camorra per siglare la pace con un altro clan e se sei l’unico a scrivere la notizia, sei morto.
Libertà d'informazione e lotta alle mafie, impegno comune
"Ha individuato le tracce di una verità allora sconvolgente, ha denunciato le trame di alleanze affaristico-mafiose ed anticipato le attuali acquisizioni investigative e giudiziarie"Armando D’Alterio - pubblico ministero
La mafia non perdona perché non vuole che si svelino i suoi affari. Infatti ha ucciso otto giornalisti “impiccioni” in Sicilia e uno in Campania. "Ha individuato le tracce di una verità allora sconvolgente – scriveva il pubblico ministero Armando D’Alterio –, l'esistenza in Torre Annunziata di un'alleanza fra associazioni mafiose e una parte dell'imprenditoria e della politica per la gestione del potere nella cittadina di Torre Annunziata. Ha denunciato le trame di alleanze affaristico-mafiose, anche esorbitanti dai confini locali, ed anticipato, anche attraverso deduzioni, fondate sulla elaborazione di informazioni e documenti, le attuali acquisizioni investigative e giudiziarie".
Giancarlo si muoveva in terre difficili e nemiche, solo molti anni dopo abbiamo scoperto che anche le terre amiche non lo erano affatto. Silenzi, depistaggi, complicità hanno contraddistinto i dieci anni di indagini, fino a che D’Alterio non ha scoperto la verità, con otto condanne all’ergastolo. Quello che non sapevamo e non immaginavamo è che a distanza di quarant’anni la storia di Giancarlo fosse ancora così “viva”. Questo è accaduto grazie all’impegno di tutti coloro, pochissimi nei primi anni e poi via via sempre più numerosi, che ci sono stati accanto. Geppino Fiorenza forse è l’unico che ci ha sempre accompagnato e gliene siamo profondamente grati.
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Ma il vero cambiamento è avvenuto nel 1995, quando don Luigi Ciotti ha fondato Libera, dando voce ai tanti familiari di vittime innocenti che, come per miracolo, sentivano finalmente pronunciare il nome dei loro cari, fino ad allora sconosciuto ai tanti, urlato per le strade del nostro Paese il 21 marzo di ogni anno. Nell’elenco c’era anche il nome di Giancarlo ed è così che la sua storia ha cominciato a essere conosciuta non solo a Napoli e in Campania ma anche a Palermo, Udine, Firenze, Milano, Montecatini e in tanti altri luoghi. Questo ci ha dato forza e coraggio, ci ha spinto a impegnarci ancora di più per ricordare le storie delle vittime innocenti: non più solo nostre ma di tutta la collettività. Memoria e impegno, come ci ha sempre detto don Ciotti.
"Ti hanno rubato il futuro, la gioia, la felicità, ti hanno rubato il tuo lavoro Giancarlo. Ti hanno rubato la vita per sempre e noi non possiamo fare altro che continuare a raccontarla. È la tua piccola rivincita"
Ci hanno rubato la vita. Questa è la verità, e noi proviamo a riprendercela con difficoltà, con dolore, sapendo che Giancarlo non tornerà più. Ci hanno rubato la vita per sempre. Ti hanno rubato il futuro, la gioia, la felicità, ti hanno rubato il tuo lavoro Giancarlo. Ti hanno rubato la vita per sempre e noi non possiamo fare altro che continuare a raccontarla. È la tua piccola rivincita.
Da lavialibera n° 34, Il giornalismo che resiste
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