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17 dicembre 2025
È “giusta” una decarbonizzazione dell’economia che non sacrifica lavoratori e comunità vulnerabili sull’altare dell’emergenza climatica. In questa breve definizione sono racchiuse molte speranze e sfide, nonché una grande scommessa. Per vincerla e realizzare una transizione giusta non solo sulla carta, è necessario che i paesi industrializzati – responsabili della maggior parte delle emissioni storiche – accettino di fornire un supporto finanziario e tecnologico a quelli in via di sviluppo.
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Non solo: serve che le decisioni non siano più calate dall’alto, ma costruite attraverso il dialogo sociale, coinvolgendo anche i lavoratori che perderanno il loro impiego dopo la chiusura di miniere, centrali a carbone e fabbriche inquinanti. Questo nuovo approccio richiede di modificare i paradigmi economici e geopolitici che finora hanno guidato le transizioni, sperimentandone di nuovi e più giusti.
Serve che le decisioni non siano più calate dall’alto, ma costruite attraverso il dialogo sociale, coinvolgendo anche i lavoratori che perderanno il loro impiego dopo la chiusura delle fabbriche inquinanti
Alla Cop30 tenutasi lo scorso novembre a Belém, in Brasile, è stato fatto un passo avanti con l’istituzione del Just Transition Mechanism, un meccanismo che per la prima volta formalizza questi principi in un accordo internazionale. Il documento riconosce la necessità di una transizione sistemica che coinvolga tutti i settori dall’energia all’agricoltura, basata su approcci partecipativi in grado di tutelare i diritti umani e dei lavoratori e prevedere il trasferimento di tecnologia e capacity building. Non una rivoluzione, ma comunque un passo in avanti deicisivo: l’importante è aver messo nero su bianco che la velocità e le modalità della transizione devono rispettare le responsabilità storiche e le diverse capacità dei paesi.
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L’Unione europea si è presentata in Brasile come leader della transizione giusta, vantando il Just Transition Fund da 17,5 miliardi di euro istituito per supportare le regioni dipendenti da carbone e combustibili fossili. Il Vecchio continente ha sviluppato piani territoriali in Polonia, Germania, Romania e lanciato Just Transition Partnerships con Sudafrica (8,5 miliardi di dollari), Indonesia (20 miliardi), Vietnam (15,5 miliardi) e Senegal (2,7 miliardi), con l’obiettivo di aiutare questi paesi a dismettere il carbone.
Tutto molto bello, se non fosse che poche settimane dopo la chiusura della conferenza, la fragilità della leadership europea è emersa in tutta la sua chiarezza, con la proposta della Commissione di rivedere lo stop alla vendita di auto con motori a combustione interna previsto per il 2035, anticipando la clausola di revisione che era programmata per il 2026 come chiesto da Italia, Repubblica Ceca e altri Stati membri.
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L’industria automobilistica europea – che impiega direttamente 2,6 milioni di persone e ne sostiene altri 10,3 milioni nella filiera – ha motivato la richiesta spiegando di voler tutelare l’occupazione e assicurare competitività di fronte all’agguerrita concorrenza cinese e americana. Intanto, però, ha messo in discussione uno dei pilastri del Green Deal europeo, dimostrando quanto sia fragile il consenso sulla decarbonizzazione quando incontra resistenze politiche e industriali.
Per comprendere cosa sta accadendo e quali sono le prossime sfide, è utile ascoltare chi ha seguito i negoziati di Belém da vicino. Chiara Martinelli è alla guida del Climate action network (Can) Europa, la più grande coalizione di organizzazioni della società civile che lavora su clima e energia in Europa, con oltre 180 membri in 38 paesi. Ha partecipato ai negoziati come osservatrice e il suo responso è netto: “Non si è saputo rispondere adeguatamente al livello di emergenza climatica di cui siamo testimoni”.
Martinelli riconosce comunque che il Just Transition Mechanism rappresenta “un segnale importante di come i negoziati sul clima possano dare maggiore visibilità a questo aspetto a livello internazionale”. Da Belém, aggiunge, è arrivata “la conferma che il mondo deve andare verso una transizione non solo nel settore energetico, ma attraverso tutti i settori, da quello agricolo ai trasporti”.
"Il mondo deve andare verso una transizione non solo nel settore energetico, ma attraverso tutti i settori, da quello agricolo ai trasporti”, dice Chiara Martinelli
Questo è punto fondamentale perché ancora non si parla a sufficienza di transizione sistemica. “Sottolinearlo in un documento può sembrare simbolico – aggiunge – ma è un atto politicamente molto importante”. Secondo Martinelli, il Just Transition Mechanism opera su tre livelli, partendo da quello internazionale, e sottolinea come la transizione, pur essendo necessaria per tutti i paesi firmatari dell’Accordo di Parigi, “per essere giusta non può avvenire alla stessa velocità e allo stesso modo”.
Il documento di Belém riconosce che servono responsabilità differenziate e, in certo senso, “proporzionate”: secondo i dati dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), dal 1850 al 2019 i paesi sviluppati hanno prodotto circa il 79 per cento delle emissioni cumulative di CO2, mentre quelli in via di sviluppo, che rappresentano oltre l’80 per cento della popolazione mondiale, subiranno gli impatti più severi del cambiamento climatico.
Dal 1850 al 2019 i paesi sviluppati hanno prodotto circa il 79 per cento delle emissioni cumulative di CO2
Il secondo livello è quello operativo. Alla Cop30 si è parlato insistentemente di means of implementation, i mezzi per l’attuazione, ed è importante non dare per scontato di cosa si tratta. “Non ci si può limitare solo a finanziamenti per la transizione dei paesi in via di sviluppo – precisa Martinelli – ma bisogna pensare anche all’armonizzazione e all’uso sinergico di strumenti di cooperazione internazionale. Per una transizione giusta serve che i paesi con maggiore capacità supportino quelli che hanno bisogno di aiuto, anche con soluzioni tecnologiche, iniziative di capacity building e co-progettazione”.
Il terzo livello è sociale. Il documento include richieste esplicite di approcci partecipativi e multistakeholder che mettano al centro le persone. “Finalmente è stato riconosciuto che occorre coinvolgere i gruppi più vulnerabili, proponendo un approccio basato sui diritti di chi subisce maggiormente la crisi climatica”, dice ancora Martinelli. Un risultato ottenuto grazie alla pressione della società civile e dei sindacati. Martinelli parla quindi del bisogno di recuperare un dialogo sociale che ribadisca come la transizione giusta non possa essere decisa da altri, rischiando che incida negativamente sull’occupazione.
Analizzando il ruolo svolto dall’Unione europea a Belém, Martinelli si sofferma, in particolare, sull’operato di Federica Fricano, co-facilitatrice dei colloqui sul programma di lavoro per una transizione giusta, e di Krzysztof Bolesta, il viceministro polacco per il clima che ha presieduto i negoziati insieme al Messico, portando l’esperienza delle regioni carbonifere polacche.
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Proprio in Polonia, le regioni della Slesia hanno ricevuto circa 3,5 miliardi di euro dal Just Transition Fund per riqualificare minatori e sviluppare nuove industrie, mentre in Germania la Renania ha ottenuto oltre 2 miliardi per chiudere in anticipo le miniere di lignite e creare nuovi poli tecnologici. Iniziative lodevoli, ma che secondo Martinelli lasciano un senso di incompiutezza. “L’Europa si è presentata in Brasile come ‘la prima della classe’, potendo vantare un’esperienza di strumenti pratici e iniziative regionali senza pari a livello mondiale, ma era consapevole che la sua strategia ambientale al momento è traballante”.
Un punto dolente della strategia europea è rappresentato proprio dalle Just Transition Partnerships con i paesi terzi. “Sono diventati accordi per l’estrazione di minerali e interessi commerciali di un paese europeo nei confronti di quelli in via di sviluppo”, insiste Martinelli. Nel caso del Sudafrica, un’analisi del think tank E3G ha rilevato che solo il 4 per cento dei fondi iniziali era costituito da sovvenzioni, mentre per il resto si trattava di prestiti che aumentano il debito del paese.
Inoltre, gli accordi includono clausole che favoriscono l’accesso europeo a minerali critici come manganese, platino e cobalto, essenziali per realizzare batterie e pannelli solari. Sono transition partnership senza “just” davanti. La decisione presa a Belém sul meccanismo internazionale “potrebbe portare a una maggiore responsabilizzazione rispetto alle iniziative bilaterali che stanno proliferando nella direzione sbagliata”.
Priorità economiche di breve termine rischiano di far retrocedere impegni climatici acquisiti, sacrificando quella dimensione “giusta” costruita con fatica
La richiesta di rivedere lo stop ai motori termici del 2035 si inserisce proprio in questo quadro di contraddizioni. La clausola di revisione era prevista per il 2026, ma diversi Stati membri hanno chiesto di anticiparla, sostenendo che i target attuali metterebbero a rischio i posti di lavoro di fronte alla concorrenza estera. È esattamente il tipo di pressione che Martinelli teme: priorità economiche di breve termine che rischiano di far retrocedere impegni climatici acquisiti, sacrificando proprio quella dimensione “giusta” costruita con fatica e che ora rischia di svanire.
Nonostante il vacillare europeo sulle politiche green interne e verso l’esterno, per Martinelli “sulla transizione giusta la Cop30 ci conferma che abbiamo strumenti e principi adeguati a realizzarla e un sistema efficace per promuovere questo approccio anche fuori dai suoi confini”. Ma aggiunge: “Serve lavorare per mantenere la volontà politica, perché oggi la transizione giusta è sotto attacco a livello di principi e valori. Ogni giorno sembrano emergere nuove priorità che rischiano di metterla da parte”.
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Il contesto è certamente difficile. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, per raggiungere gli obiettivi climatici globali servirebbero, entro il 2030, investimenti annuali nelle energie pulite pari a 4.500 miliardi di dollari, quando nel 2023 gli investimenti globali hanno raggiunto “appena” 1.800 miliardi. La Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha lanciato il Clean Industrial Deal, che punta sulla competitività industriale, ma ha ridimensionato alcuni obiettivi climatici. Il Green Deal, che aveva fatto della transizione giusta un pilastro, è sotto pressione crescente.
Per raggiungere gli obiettivi climatici servirebbero, entro il 2030, investimenti annuali in energie pulite per 4.500 miliardi di dollari, ma nel 2023 hanno raggiunto “appena” 1.800 miliardi
Per evitare che il “just” resti tra parentesi anche in Europa, secondo Martinelli servirebbe “mantenere il mercato europeo competitivo a livello internazionale, attraverso un maggiore allineamento interno”. Più politiche di coesione, quindi, un mercato unico più solido e un allineamento tra politiche industriali, di mercato e fiscali. E ancora, leadership nella transizione energetica con investimenti massicci nella decarbonizzazione industriale e nelle rinnovabili, evitando ritirate strategiche di fronte alle prime difficoltà.
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L’Italia gioca la sua partita sul fronte del dialogo sociale e dei diritti dei lavoratori. “Ambiti nei quali il nostro paese è storicamente è leader”, dice Martinelli, che nota però come le politiche nazionali stanno cercando di annullare questa leadership. "Sarebbe un grave passo indietro e porterebbe un depotenziamento del ruolo e del potere che l’Italia può avere in Europa”.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) italiano ha allocato 59,47 miliardi per la transizione ecologica, ma organizzazioni sindacali come la Cgil hanno denunciato la mancanza di dialogo con i lavoratori per decidere in che modo spendere questi fondi. Il 2026 si apre quindi con una doppia sfida per il nostro Paese, chiamato a riconquistare una leadership nel dialogo sociale che sembra un vecchio ricordo in bianco e nero.
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