11 marzo 2021
Il riuso sociale di immobili e terreni confiscati alla criminalità organizzata può servire allo sviluppo delle comunità emarginate? Questi patrimoni possono diventare una base logistica per processi di riconversione territoriale? Prima di elencare le tre ragioni a supporto di tali ipotesi, partiamo da una definizione di “aree fragili”.
In sintesi, sono chiamate aree fragili i territori in cui si concentrano una serie di criticità sociali (spopolamento, invecchiamento, bassa partecipazione), economiche (erosione dei redditi, rarefazione commerciale), spaziali (isolamento, distanza dai servizi e dagli snodi logistici) e/o ecologiche (dissesto idrogeologico, abbandono). In termini più ampi, è possibile ricorrere a questa espressione per riferirsi a tutte le comunità escluse dalle appartenenze forti, lontane dalla centralità storica e dalle sedi in cui si accumula ricchezza e si elaborano i valori dominanti.
Tre ordini di ragioni ci hanno spinto a sollecitare il dibattito sul riuso dei beni confiscati in tali contesti. Il primo riguarda la distribuzione territoriale dei patrimoni, che si addensano proprio in aree dove le economie criminali e predatorie intensificano gli elementi di fragilità e che spesso coincidono con aree interne e “di provincia”. Circa un terzo di immobili e terreni (5.611 su 16.361 totali, il 34 per cento) si trova in Comuni di piccole (fino a 5.000 abitanti) e medio-piccole dimensioni (da 5.001 a 14.999 abitanti) (Fonte: OpenRe.g.i.o.).
Il secondo è connesso allo “statuto” dei beni, iscritti nel patrimonio dei Comuni come potenziale sede istituzionale, di interventi di welfare (es. alloggi, attività di inclusione sociale e socioassistenziale) e di economia civile, sociale e solidale (per finalità produttive, agricole, culturali, di turismo sociale ecc.). Tutte risorse dirimenti per le aree fragili, specie quando alimentano partecipazione e commoning, ossia l’insieme di pratiche che permettono il passaggio di status da patrimoni comunali in “beni comuni”, accessibili, cooperativi, non competitivi e non rivali, finalizzati ai bisogni della comunità e alla tutela del patrimonio ambientale.
Infine, il tipo di dinamiche che si attivano attorno alla loro gestione. Non sono percorsi facili e necessitano di collaborazione tra enti territoriali e società civile. Il governo dei patrimoni è infatti delegato agli enti locali ed è per questo un veicolo di riavvicinamento della politica “ai margini”: può incoraggiare partecipazione e dibattito, favorire elaborazione corale in settori che producono beni e servizi fondamentali alla vita quotidiana delle comunità. Percorsi che hanno talvolta contribuito a ridare fiducia a istituzioni del governo locale proprio dove l’incapacità di regolare la vita civile, pubblica e sociale avevano offerto terreno fertile al radicamento criminale.
Alcuni dati ci permettono di offrire un quadro più concreto delle implicazioni del riuso. In occasione dell’anniversario dei 25 anni dall’approvazione della legge 109 del 1996 per il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, Libera ha pubblicato il dossier FATTIperBENE, una mappatura di 867 esperienze di riutilizzo pubblico e sociale in tutta Italia. Questi dati tracciano una strada precisa: i beni confiscati sono beni comuni, strumenti di welfare sussidiario per il contesto territoriale in cui sono inseriti. 468 associazioni non profit e 189 cooperative di diversa tipologia, insieme a 60 enti ecclesiastici e 26 fondazioni sono solo una parte di soggetti gestori che sono impegnati in diversi ambiti di attività, nella maggior parte dei casi tra loro sovrapposti: 472 soggetti si occupano di politiche sociali e welfare, direttamente collegati, poi, con le 97 esperienze di produzione e lavoro; sono dedicate alla valorizzazione dell’agricoltura e del paesaggio ambientale 94 esperienze, mentre 185 soggetti portano avanti progetti di promozione culturale, sapere e turismo responsabile.
Come detto, visto come leva di governo del territorio, il riutilizzo dei patrimoni richiede la sinergia tra amministrazioni locali e società civile. I Comuni, in particolare, giocano un ruolo centrale in questa partita: a loro è destinato più dell’80 per cento dei beni, devono promuoverne il riuso coinvolgendo la cittadinanza, anche attraverso la pubblicità dei dati sui loro siti istituzionali, così come previsto dall’art. 48 del Codice antimafia.
Proprio il livello di trasparenza dei Comuni è stato l’oggetto del report rimanDATI, in cui Libera ha monitorato la pubblicazione dei dati sui beni confiscati in 1.076 comuni in tutta Italia. Ebbene, ben 670 di essi non pubblicano informazioni sul loro sito internet, pari al 62 per cento del totale. Proprio nei Comuni di piccole e medio-piccole dimensioni, quelli che più si associano ad aree interne e fragili, si registra una più generalizzata carenza di “trasparenza”: dei 678 comuni monitorati, pubblicano il dato solo il 33 per cento dei medio-piccoli e il 25 per cento dei piccoli. Il dato invita a fornire massima attenzione e sostegno a queste realtà, per adempiere agli oneri di trasparenza e così valorizzare a pieno i patrimoni come argine ai processi di emarginazione. Perché quando riconsegnati ai territori i beni confiscati rappresentano una questione soprattutto politica e per renderli strumenti efficaci per la comunità è necessario stimolare processi formativi e percorsi di “buon governo”.
Su 867 esperienze di riutilizzo in tutta Italia, 468 beni sono gestiti da associazioni non profit, 189 da cooperative, 60 da enti ecclesiastici e 26 da fondazioni
Su questa linea vanno immaginate le traiettorie di azione con gli enti locali, che ora possono avere il sostegno delle politiche di coesione dei Fondi Europei. Nel marzo 2019 è stata infatti approvata la Strategia nazionale per la valorizzazione dei beni confiscati attraverso le politiche di coesione: il documento riconosce la valenza simbolica e strutturale dei beni confiscati e li rende oggetti possibili di progetti di valorizzazione e di ristrutturazione. Proprio le aree più marginali possono rappresentare un contesto sperimentale in questo percorso. Qui si concentra una parte significativa delle risorse spese per valorizzarli: su 228 Comuni sede di progetti di riutilizzo finanziati con fondi europei, solo il 13 per cento riguarda aree urbane e capoluoghi di provincia (33 casi) (fonte: OpenCoesione). Qui la confisca va letta fuori dall’ottica penale, come mera fase conclusiva e di completamento di una politica di contrasto indiretto alle mafie. È piuttosto un’occasione di sinergia tra amministrazioni locali e società civile, tra pubblico e privato sociale, un’opportunità per migliorare partecipazione e qualità della democrazia locale.
Alcune esperienze territoriali, che saranno presentate durante la sessione “Riuso dei patrimoni confiscati come ‘beni comuni’ per le aree fragili” all’interno del XVI Convegno Aree Fragili, che si terrà il prossimo 19 e 20 marzo 2021, forniscono ulteriore concretezza alla riflessione. In Abruzzo, Calabria, Campania, Lombardia, Puglia e Sicilia, i progetti si focalizzano sulle potenzialità dei patrimoni per la rigenerazione urbanistica, il governo degli interventi sulle fragilità sociali (minori e famiglie vulnerabili), il rilancio dei servizi per i cittadini e di integrazione con le politiche per la città, il miglioramento dell’ecosistema e nella tutela della biodiversità. Le esperienze sono per lo più frutto di progettazione partecipata e dell’ascolto della comunità locale. Ciò accade, ad esempio, con il progetto Legami leali nel Garda bresciano, X-Farm Agricoltura prossima a San Vito dei Normanni, Mestieri Legali a Rosarno. Laboratori sperimentali e analisi di casi specifici trovano nelle Università un partner territoriale, come per i workshop di progettazione partecipata in "aree marginali interne" nell’Alta Marsica, in Abruzzo, o la progettazione condivisa di nuove strade di gestione e uso sociale di Pizzo Sella, a Palermo.
Il dialogo tra le esperienze di riutilizzo e le politiche pubbliche può rappresentare un ottimo strumento per rendere i beni confiscati volano di crescita e inclusione sociale. I casi e le riflessioni, nel loro complesso, discutono opportunità e criticità del riuso nei territori “lasciati indietro”, places left behind, che su scala locale stimolano forme di autodifesa e innovazione sociale. Possibilità che si affianca alla più ampia casistica che in letteratura già sottolinea la peculiare vitalità “dei margini”.
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