3 maggio 2021
Raccontare storie straordinarie con una splendida colonna sonora. Magali Berardo definisce così ciò che fa. Nata a Cuneo, di base a Torino e orecchie tese al mondo intero, ha fondato nel 2007 Musicalista, agenzia che promuove in Italia artisti capaci di miscelare i suoni delle loro tradizioni a quelli moderni. Potremmo chiamarlaworld music, ma le etichette non le piacciono: "Quando sento parlare di musica etnica ho un attacco di orticaria". Ha fatto conoscere al pubblico italiano Aeham Ahmad, che suonava il suo pianoforte nei campi profughi di Jarmuk in Siria, la band libanese Mashrou’ Leila, il duo Amadou&Miriam dal Mali, da dove arrivano anche i Tamikrest, rock tuareg come quello di Bombino che ha incantato Jovanotti. E poi ancora altri artisti, spesso ospiti di Diego Bianchi a Propaganda live (La7).
Facciamo un gioco. Bloccati dalla pandemia, immaginiamo un viaggio fatto con la musica. Quali luoghi, e quindi quali artisti, suggerisci?
Credo che tutti noi abbiamo voglia di varcare con lo sguardo orizzonti completamente diversi da quelli in cui siamo costretti dopo più di un anno di pandemia. Io ho voglia di paesaggi distanti, come il deserto, e ascolto Afel Bocoum, chitarrista del Mali, o i Tinariwen (band di tuareg, ndr) che non smettono mai di stupirmi. Un’altra delle cose che mi manca molto è il ballo, per cui un disco come quello del collettivo lionese Et voilàaa ci trasporta subito su una pista da ballo dove la afro sposa la disco anni Settanta e anche se siamo nel salotto di casa nostra in pigiama possiamo scatenarci come se fossimo in un club di Lagos. Quando dico Lagos non posso non pensare al mitico Tony Allen. Il 30 aprile uscirà il suo disco postumo, l’ho ascoltato in anteprima e ve lo consiglio, il beat della batteria di Tony incontra il flow di giovani rapper.
“Ciò che definiamo world music non deve stare in una teca, ma essere vissuta, sudata e cantata”
Come sei diventata l’agente di musicisti provenienti da tutto il mondo?
Finita l’università, nel 2003 ho cominciato a lavorare nella musica per puro caso: una sera in un bar ho conosciuto François Saubadu, un agente, scoprendo che aveva l’ufficio di fronte a casa mia e gestiva con Ettore Caretta l’agenzia Duende, nel cui catalogo figuravano artisti come Vinicio Capossela, Sergio Cammarriere, grandi brasiliani e le migliori orchestre latinoamericane. Stava cercando un’assistente ed essendo diplomata alla scuola per interpreti e traduttori facevo al caso suo. Dopo un po’ François ed Ettore hanno chiuso la società, mentre io avevo incontrato un altro personaggio determinante, Gianpiero Gallina: mi offrì di lavorare a Musica 90, realtà che organizzava rassegne di world music e rappresentava artisti di questo filone in Italia.
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Tuo padre, Sergio Berardo, è il fondatore e cantante dei Lou Dalfin, gruppo folk occitano. Quant’è stato importante per te crescere in un contesto dove la musica legata all’identità di un popolo era pane quotidiano?
Sicuramente è stato molto importante perché ha contribuito a plasmare il mio gusto verso sonorità con una matrice locale. C’è una parola in tamasheq, la lingua dei tuareg, che rende molto bene questo concetto: azel. Ha diversi significati, oltre a essere “radici di un albero”, significa al tempo stesso “rami”. Le nostre radici sono i nostri rami.
Come scopri i tuoi artisti?
Ascolto un sacco di musica e frequento le fiere di settore.
Dietro ogni artista che proponi c’è una storia. Puoi raccontarcene alcune?
Ne avrei tante perché dietro ogni essere umano c’è una storia. Quando mi chiedono che cosa facciamo a Musicalista mi piace rispondere che raccontiamo storie straordinarie con una magnifica colonna sonora. Per me la storia di Bombino rimane la più emblematica: un ragazzo che ha trascorso parte della sua vita come profugo riesce a realizzare il sogno di vivere della sua musica e diventare una star internazionale.
Tra quelli che rappresenti, quale artista ti ha stupito più di tutti?
Proprio Bombino. I risultati ottenuti con lui sono stati strabilianti. Ho creduto in lui dal primo momento, ho investito subito tantissimo con tenacia e perseveranza: intuivo che poteva essere l’artista capace di rompere lo schema terribile della musica etnica nel modo in cui alla radice identitaria sovrapponeva il rock e il blues. Portarlo sul palco del primo maggio o a Che tempo che fa (Rai3) è stata una soddisfazione immensa. Un altro grande regalo è stato lavorare con personaggi leggendari come Tony Allen, Hugh Masekela o Manu Dibango. Un vero privilegio.
Quale area geografica vorresti scoprire a livello musicale?
Ho iniziato a lavorare con Leyla McCalla di New Orleans. È la prima volta che lavoro con un’artista di questa città, mi affascina moltissimo.
Quale valore politico e sociale ha portare in Italia musicisti di world music?
Smettere di utilizzare questo termine potrebbe essere un buon inizio. Sono fedele al concetto di musiques actuelles, che non definisce un genere, ma include una serie di pratiche differenti. Un esempio concreto sono i grandi festival europei dove si esibiscono musicisti di strumenti tradizionali con grandi nomi del rock o di sonorità che sembrano lontane anni luce. La parola contaminazione mi fa sempre pensare a un virus, mi piace piuttosto pensare alla curiosità, all’ispirazione, all’assimilazione. Abbiamo attraversato un clima di diffidenza che non c’era fino a un paio di anni fa, lo percepivo parecchio quando viaggiavo con musicisti africani. A volte coglievo sguardi che sconfinavano nel disprezzo ed è molto doloroso.
Questo clima va annientato e vanno consolidate le basi dell’accoglienza e della solidarietà. La musica può fare molto, può essere un veicolo di pace, ma con qualunque mezzo si può fare qualcosa. Nel nostro Paese siamo meno avvezzi a convivere con culture lontane ed è una delle ragioni per cui il razzismo ha gioco facile, ma possiamo dare anche un’altra interpretazione che può fornirci una chiave di lettura importante: assimilare la diversità e riconoscerla nella sua bellezza.
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Pensi di essere riuscita ad aprire una breccia nelle orecchie e nelle menti?
Mi piacerebbe molto, ma sono davvero un pesciolino. Devo dire, però, che se guardo il panorama italiano, Bombino ha segnato uno spartiacque nelle programmazioni dei festival e dei concerti degli ultimi otto anni. Mai prima di lui un artista africano aveva solcato certi palchi, riservati da sempre ad artisti più convenzionali. Quella che viene definita world music non dev’essere un fenomeno da museo tenuto in una teca, dev’essere vissuta, sudata, cantata come qualunque genere musicale.
A proposito di concerti, in che maniera stai vivendo questo lungo stop?
Da quando ho fondato Musicalista non mi era mai capitato di dover affrontare una prospettiva così nera: il mio lavoro ha i suoi alti e bassi, ma sin dagli inizi della pandemia ho capito che sarebbe saltato tutto perché i concerti creano aggregazione. È stato un cataclisma che ha travolto le tante imprese del comparto, soprattutto le piccole e medie come la mia. Ho dovuto inventarmi un piano b. Mi sono messa a creare mascherine usando i tessuti africani wax raccolti nei viaggi di lavoro. Da lì ho allargato la collezione ad altri accessori e, grazie all’aiuto di una sarta professionista, ora realizziamo anche vestiti integrabili nell’abbigliamento casual. Si chiama Atelier Habibi e abbiamo una boutique online.
“Azel è una parola in tamasheq, la lingua dei tuareg, che indica sia le radici sia i rami: le nostre radici sono i nostri rami”
Gli aiuti messi in campo dal governo sono stati sufficienti?
Purtroppo no. Sembra che il governo non abbia ancora compreso che il settore dello spettacolo dal 24 febbraio 2020 è stato chiuso nove mesi su dodici e nei quattro mesi estivi l’attività è stata minima. I decreti della scorsa primavera e dell’autunno avevano calcolato il parametro della perdita di fatturato sul mese di aprile, ma è poco rappresentativo perché l’operatività è stagionale.
Tra i tuoi musicisti c’è soltanto un italiano, Vinicio Capossela, che però rappresenti all’estero. Ci sono artisti o band nostrane di cui ti occuperesti?
Ho iniziato a lavorare con una band della Romagna, musicisti pazzeschi. Un romagnolo, un nigeriano e un giapponese che creano un sound nuovo unendo la cumbia alla chanson. Si chiamano Kakawa, ne sentirete parlare presto.
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