5 maggio 2021
Compito del giornalismo è fare conoscere al pubblico ciò che non sa. Quindi non scriverò che il giornalismo è in crisi, lo sapete bene. Meno chiaro è il groviglio di ragioni che minacciano il mondo dell’informazione e il diritto di tutti di essere informati.
Effetto covid, il Governo detta l'agenda dei media
Se la stragrande maggioranza degli italiani non si fida di ciò che legge, la colpa non è dei lettori. La principale minaccia all’informazione è il giornalismo stesso. Un mondo che con l’arrivo della crisi economica, il crollo delle vendite e degli introiti pubblicitari, ha concentrato la sua attenzione quasi esclusivamente sui nemici esterni, che pure esistono, anziché preoccuparsi di una seria autocritica e di correre ai ripari. Beninteso, le sfide legate alla velocità della Rete e alla moltiplicazione delle fonti di informazione, come le minacce di chi preferisce proseguire nei suoi affari indisturbato, sono questioni reali. Nel 2020 sono stati uccisi nel mondo 55 giornalisti solo perché stavano facendo bene il proprio mestiere. Secondo l’ultimo report del Consiglio d’Europa, l’anno passato gli episodi di allerta sulla libertà dei media si sono raddoppiati, contando molti attacchi fisici (52 casi segnalati), molestie o intimidazioni (70 casi). Anche in Italia sono stati registrati 163 atti intimidatori di varia natura.
Raccontare la mafia: poca strada, troppe carte
Ma cosa ha fatto il mondo dell’informazione nostrana di fronte alla retorica dilagante sui giornalisti-casta e il precipitare della reputazione del nostro mestiere? Poco, molto poco. Ognuno per sé, nell’illusione che le accuse riguardino sempre e solo gli altri, quelli che lavorano male, quelli che vanno a braccetto con il potere. Il risultato è una crisi che ha travolto l’intero settore, con critiche che hanno trovato terreno fertile nel grande pubblico, sempre più istigato che informato.
Troppo poco abbiamo riflettuto sulla partigianeria, le pressioni degli editori interessati agli affari più che ai loro giornali, la perdita di qualità degli articoli, l’estrema precarizzazione del lavoro. In dieci anni dall’approvazione della Carta di Firenze sui diritti dei precari, restano pochissimi i giornalisti che l’hanno impugnata per tutelarsi. "Li paralizza il timore, spesso la certezza, della rappresaglia", spiega Alberto Sinigaglia, presidente dell’ordine del Piemonte intervistato da Francesca Dalrì. Troppo poco abbiamo riflettuto sull’indipendenza e sulla delicatezza del nostro ruolo, sulla responsabilità di raccontare il mondo e di dare un nome alle cose, di rendere pubblico ciò che qualcun altro vorrebbe tenere nascosto. Troppo poco abbiamo sentito l’orgoglio, come categoria, per colleghe e colleghi che continuano a informare con serietà e passione dai fronti più esposti, dalle province più lontane e spesso con stipendi da fame. Dunque, non è (solo) colpa del pubblico se oggi è diffusa l’opinione che si possa fare a meno dei giornali, di carta o digitali che siano.
Serve un colpo d’ala. La salvezza del diritto di sapere passa da una nuova alleanza, un rinnovato patto di fiducia tra chi fa informazione, e si assume fino in fondo la responsabilità del proprio ruolo, e chi se ne serve per non restare preda del ciarlatano di turno, riconoscendo il valore e l’importanza del buon giornalismo. I segnali per sperare esistono, inaspettatamente favoriti dalla pandemia, che ha rimesso al centro il bisogno di essere informati. Di una cosa possono stare certi i lettori: la buona informazione costa e ha bisogno di essere sostenuta.
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