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Di bene in meglio

Dei 36.616 immobili confiscati alle mafie dal 1982 solo il 47% è tornato nelle mani di istituzioni e società civile. Un patrimonio che rimane in gran parte sconosciuto: solo il 38% dei Comuni che gestiscono beni confiscati pubblica le informazioni

Tatiana Giannone

Tatiana GiannoneSettore beni confiscati e Università di Libera

Davide Pecorelli

Davide PecorelliVideomaker responsabile ufficio stampa Cgil Torino

3 maggio 2021

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Agli inizi di marzo una giovane donna vittima di violenza ha trovato rifugio in un bene confiscato alla mafia. È successo in Francia, dove di recente è stata approvata una legislazione ispirata al sistema italiano di riutilizzo a fini sociali dei beni sequestrati o confiscati. Sono 19 gli Stati europei in cui esiste una normativa di questo tipo, di cui siamo stati modello. Nel nostro Paese la prima legge che ha previsto la confisca degli averi come strumento fondamentale contro il potere mafioso è stata la legge Rognoni-La Torre del 1982. Un ulteriore traguardo è stato raggiunto nel 1996, con la legge 109, approvata grazie all’impegno di Libera, che ne ha introdotto il riutilizzo sociale. In venticinque anni sono stati raggiunti molti risultati positivi, ma per valorizzare al meglio questo patrimonio sono ancora necessari degli importanti passi avanti.

Dal 1982 ad oggi si contano 36.616 beni immobili (particelle catastali) confiscati, di cui al 15 aprile 2021 l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati (Anbsc) ne ha destinati e consegnati poco più di 17mila per finalità istituzionali e sociali. Altri 19mila rimangono ancora in sua gestione perché presentano varie forme di criticità come quote indivise, irregolarità urbanistiche, occupazioni abusive e condizioni strutturali precarie. Sono beni che hanno grandi potenzialità. Come primo dato si può evidenziare, infatti, che la maggior parte si trova in Comuni di piccole (fino a cinquemila abitanti) e medio-piccole (da 5.001 a 14.999 abitanti) dimensioni: aree spesso fragili perché lontane dai centri in cui si accumula ricchezza e dove esistono problemi di spopolamento, invecchiamento, dissesto idrogeologico, isolamento. In questi contesti, intaccati più in profondità dalle economie criminali, gli immobili sottratti alle mafie possono diventare strumenti per la rigenerazione urbana e territoriale: laboratori per nuovi modelli di sviluppo sostenibile grazie ai finanziamenti messi a disposizione dall’Unione europea.

Guida ai beni confiscati alle mafie

I dati pubblicati da OpenCoesione mostrano che al 31 dicembre 2020, sono stati finanziati con fondi europei 415 progetti per il riutilizzo sociale dei beni confiscati, per un valore complessivo di 273,21 milioni di euro. Investimenti e proposte progettuali si concentrano per lo più nelle regioni del Sud e in particolare in Sicilia (destinataria di 84,80 milioni di euro complessivi per 151 progetti), Campania (82,53 milioni di euro per 99 progetti) e Calabria (48,64 milioni di euro per 84 progetti).

I beni confiscati possono essere "palestre di vita", come li ha definiti Papa Francesco, soprattutto se si qualificano come beni comuni ovvero beni accessibili, cooperativi, non competitivi e non rivali, finalizzati ai bisogni della comunità e alla tutela del patrimonio ambientale. È un percorso che richiede la collaborazione tra società civile ed enti territoriali, cui spetta il governo di questo patrimonio, e che talvolta ha riavvicinato cittadine e cittadini alla politica locale, incoraggiando partecipazione e dibattito. Percorsi che hanno contribuito a ridare fiducia alle istituzioni proprio dove l’incapacità di regolare la vita civile, pubblica e sociale, aveva offerto terreno fertile al radicamento criminale.

Irrobustire le "aree fragili" con l'aiuto dei beni confiscati

Veniamo ai tasti dolenti. C’è ancora bisogno di creare una collaborazione stabile e continuativa tra società civile organizzata e istituzioni. Poi di migliorare la comunicazione, facendo in modo che gli enti locali, in particolar modo quelli di dimensioni minori, possano accedere a percorsi di formazione che permettano loro di capire il valore del riutilizzo pubblico e sociale dei beni, e come sfruttare fondi nazionali ed europei. I Comuni giocano un ruolo centrale in questa partita: a loro è destinato più dell’80 per cento dei beni confiscati e a loro spetta promuoverne il riuso coinvolgendo la cittadinanza, anche attraverso la pubblicità dei dati sui propri siti istituzionali, come previsto dall’articolo 48 del Codice antimafia. Proprio aumentare il loro livello di trasparenza è il primo passo da compiere. Secondo il report di Libera, RimanDati, su 1076 Comuni italiani monitorati, solo 406 hanno pubblicato l’elenco degli immobili confiscati: il 62 per cento è ancora inadempiente. I meno virtuosi in trasparenza sono proprio i Comuni medio-piccoli e piccoli, che possiedono anche minori risorse ma si trovano a gestire più di un terzo del totale dei beni (5.611 immobili su 16.361, pari al 34 per cento del totale). Tra loro, solo il 33 per cento dei medio-piccoli e il 25 per cento dei piccoli pubblica i dati sui patrimoni.

Da lavialibera n°8 2021

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