9 febbraio 2022
Ai bordi delle stradine che si disperdono tra centri abitati e campagne della Piana di Gioia Tauro, durante le prime ore del mattino, senza illuminazione e con la temperatura di qualche grado sopra lo zero, le biciclette sembrano materializzarsi dal nulla. Sono quelle di molti lavoratori, spesso sfruttati, che si apprestano a iniziare la loro giornata lavorativa tra gli agrumeti e l’area portuale. Diverse ore più tardi, quando il buio sarà di nuovo calato, percorreranno quelle vie al contrario disperdendosi tra la zona industriale di Rosarno, il retroporto di San Ferdinando o le campagne di Taurianova e Rizziconi, nella provincia di Reggio Calabria. Ad attendere i più “fortunati” c’è un container condiviso con altre 5-6 persone, per gli altri ci sono tende o baracche dove si è costretti a stare anche in otto, e qualche rudere abbandonato. Così la storia si ripete da almeno dodici anni, dai tempi della “rivolta di Rosarno” (innescata dal ferimento, a colpi di arma da fuoco, di due migranti il 7 gennaio 2010) e della “deportazione” dei migranti dai centri abitati.
Le stagioni si sono succedute sull’adagio che una baraccopoli tira l’altra e a ciascuna seguono smantellamenti e sgomberi. L’ultimo, voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini a marzo 2019. Il prossimo, come annunciato dalla prefettura di Reggio Calabria, è invece alle porte, condizionato alla capacità – e voglia – della Regione Calabria di intercettare i fondi “per varare un progetto di accoglienza e di residenza, utilizzando alcuni beni confiscati” come un ex albergo sottratto a una famiglia di ‘ndrangheta proprio nella zona a ridosso degli insediamenti, o riqualificandone altri già utilizzati (o proposti per l’utilizzo) in passato com’è il caso dei capannoni dismessi dove avrebbe dovuto sorgere l’opificio regionale dell’ex Opera Sila, vecchia “casa” abusiva dei migranti fino al 2010.
San Ferdinando, dopo lo sgombero tante macerie e nessun vincitore
La storia recente di San Ferdinando è marcata dagli incendi e dalle morti di alcuni abitanti della tendopoli: Moussa Ba, Sylla Noumé, Suruwa Jahité, Becky Moses...
“Stanotte, mentre i potenti e i privilegiati festeggiavano il Capodanno con gioia, la tendopoli di Rosarno-San Ferdinando andava a fuoco”, si legge in un post datato 1 gennaio 2022 dell’associazione NoCap. La notte è quella del più recente San Silvestro. Intorno alle tre, nell’area dell’ormai ex tendopoli della seconda zona industriale della Piana, divampa l’ennesimo incendio. Ne risultano carbonizzate venti baracche fatte di legno, lamiera e altri materiali di fortuna. Non è la prima volta. Sebbene appaia difficile scongiurare tali conseguenze, le cause oltremodo note. Nei mesi più freddi gli stanziali degli insediamenti informali e dei “ghetti” accendono bracieri o utilizzano stufe vecchie e precarie. L’impianto spesso si sovraccarica e i cavi a vista, assicurati al nudo terreno col nastro adesivo, producono cortocircuiti che coinvolgono le tende e le baracche servite. “Questa volta – dicono dall’associazione Medici per i diritti umani (Medu), nella Piana da otto anni – per puro caso non si è verificata una tragedia, grazie anche al tempestivo intervento dei vigili del fuoco” in presidio permanente nell’area insieme agli agenti di polizia, “che hanno evacuato i braccianti e messo in sicurezza la zona”.
Due settimane dopo lo sgombero del 6 marzo 2019, la tendopoli di San Ferdinando è stata teatro dell’ennesima tragedia con la morte del 32enne di origine senegalese Sylla Noumé, carbonizzato insieme alla sua tenda. Appena un mese prima, la stessa dinamica aveva colpito il 29enne Moussa Ba quando le persone si trovavano ancora nell’ex baraccopoli, a qualche centinaio di metri di distanza. Proprio il fuoco, allora come oggi, aveva acceso i riflettori su quel mondo altrimenti dimenticato attirando l’interesse dell’allora capo del Viminale, che in un tweet annunciò lo sgombero.
Sgombereremo la baraccopoli di #SanFerdinando. L’avevamo promesso e lo faremo, anche perché illegalità e degrado provocano tragedie come quella di poche ore fa. https://t.co/maxpFJxteE
— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) February 16, 2019
Nel riavvolgere il nastro si incontrano le storie di Suruwa Jahité, 18 anni appena, arrivato dal Gambia in Italia “per fare cose buone”, come aveva raccontato agli operatori dello Sprar di Gioiosa Ionica. La sua baracca, andata in fiamme a dicembre 2018, si trovava a una manciata di metri di distanza da quella della 26enne nigeriana Becky Moses, “rinata” a Riace e morta a San Ferdinando il 27 gennaio 2018. Dopo aver ricevuto il terzo diniego alla permanenza nel borgo, per via della scadenza del permesso di soggiorno, era stata allontanata e ospitata da alcuni connazionali nella baraccopoli sorta a ridosso della vecchia tendopoli nel 2013. È la storia che ritorna in un ciclo perpetuo di vite spezzate da fuoco e indifferenza che porta fino ai giorni nostri.
"Quest’anno, anche in funzione della crisi generale che sconta il mondo dell’agricoltura, i numeri si sono ridotti e per adesso siamo fermi intorno alle 350 unità. Negli anni precedenti abbiamo visto numeri di gran lunga superiori"Andrea Tripodi - Sindaco di San Ferdinando (Rc)
“L’emergenza è un fenomeno che si presenta in un arco temporale limitato. Qui sono oltre dieci anni che viviamo una situazione fuori controllo e addirittura peggiore dell’ultima volta”. Lo scorso 24 gennaio il referente dell’ufficio nazionale Immigrazione di Caritas, Oliviero Forti, torna in visita all’insediamento insieme ad alcuni delegati territoriali di Caritas e Migrantes e al delegato Cec, monsignor Giuseppe Schillaci, vescovo di Lamezia Terme, che descrive la situazione come “scioccante”. L’ultima visita risaliva a metà 2019, qualche mese dopo lo sgombero dell’ex baraccopoli. “Quell’operazione – rimarca Forti – venne annunciata come la soluzione ai problemi di Rosarno e della Piana, ma avevamo pronosticato che non sarebbe stato sufficiente. Oggi quella consapevolezza è confermata”.
Gli ultimi mesi dimostrano una regressione al punto iniziale partita con l’abbandono dell’insediamento – stante la mancanza di fondi – da parte dell’associazione Guardie Ambientali, deputata a gestirlo, e in qualche modo culminata nella scelta del Comune di procedere a un progressivo smantellamento nell’estate 2021, comunicato agli abitanti attraverso un volantino. Il sindaco Andrea Tripodi auspicava di attirare l’attenzione almeno degli altri attori istituzionali. Così non è stato. Già prima dell’avvento della stagione agrumicola, l’insediamento si è ripopolato e per ogni tenda smantellata hanno cominciato a risorgere le baracche. Quello di San Ferdinando è tornato a essere a tutti gli effetti un insediamento informale, senza regole, tutele o servizi per chi lo abita. "Quest’anno, anche in funzione della crisi generale che sconta il mondo dell’agricoltura, i numeri si sono ridotti e per adesso siamo fermi intorno alle 350 unità. Negli anni precedenti abbiamo visto numeri di gran lunga superiori", commenta il sindaco. Sempre più difficile avere un censimento preciso degli stanziali: la cabina d’ingresso e la recinzione entro la quale erano contenute le tende sono del tutto distrutte e sono pressoché impossibili i controlli in entrata e uscita.
"Volevo guadagnare per affittare un appartamento e portare qui mia moglie e le mie figlie dal Ghana. Di certo non posso farle vivere in questo container"Joseph - Lavoratore ghanese
A contraddistinguere il perimetro e il tratto di strada che porta fino all’insediamento oggi sono i sono cumuli di rifiuti ammassati senza alcun criterio. Le condizioni igienico-sanitarie sono precipitate così com’era prima del 2019. In compenso, l’area dove sorgeva la vecchia baraccopoli, a lungo invasa dagli “scheletri” delle baracche rimasti dopo lo sgombero, è stata quasi del tutto bonificata. "Siamo da due mesi senza luce", dicono alcuni dei residenti. Chiedono aiuto con i documenti, la possibilità di utilizzare l’acqua, che nei container adibiti a bagni spesso non arriva. Hanno risposto bene alla campagna vaccinale: il primo “vax day” si è svolto il 27 luglio e ha registrato 172 adesioni sulle 208 presenze nel campo a quel giorno. Il secondo si è tenuto il primo settembre e altri 131 migranti hanno ricevuto la seconda dose di vaccino. Altri 74 hanno espresso la volontà di vaccinarsi e hanno quindi ricevuto la prima dose. Col passare dei mesi, però, non vengono fissate altre giornate. "Io avevo fatto una dose di vaccino in Danimarca", dice uno degli stanziali.
Sono lunghi i viaggi da e per la Piana, per molti “terra di mezzo” per il solo periodo della raccolta degli agrumi. "Ma non si lavora più come una volta" e per questo alcuni stanno già pensando di spostarsi in altre zone da Battipaglia a Metaponto, fino alle campagne piemontesi. "Nel corso degli anni l’offerta di lavoro in agricoltura è calata. Con la nostra attività di sportello abbiamo potuto contare diversi contratti stipulati nel settore dell’edilizia o del commercio. Si tratta comunque di due settori colpiti dal fenomeno del caporalato e quindi attenzionato", spiega a lavialibera Celeste Logiacco, segretario generale Cgil della Piana. Ha vissuto quegli insediamenti fin dalla loro nascita successiva ai fatti del 2010, tanto la tendopoli quanto il campo container di contrada Testa dell’acqua, sul territorio di Rosarno, dove si trovano ancora oggi circa 200 persone. "Accoglienza e lavoro devono camminare di pari passo per evitare di lasciare terreno fertile ai caporali. – aggiunge – Un lavoratore senza permesso di soggiorno è ricattabile e costretto ad accettare qualsiasi condizione di lavoro e pseudoregole che nulla hanno a che fare col rispetto dei contratti e la dignità della persona". Se invece non puoi più lavorare "diventi inutile e nessuno ti aiuta", racconta Joseph, poco più di 60 anni, arrivato circa sei anni fa nel campo di Rosarno. Sulla schiena la cicatrice di una ferita che dal 2017 gli impedisce l’uso della gamba, quindi la possibilità di lavorare nei campi. Parla un inglese fluente mentre in italiano pronuncia solo le parole campagna, mandarini, zappa. I braccianti non conoscono la possibilità di altri lavori. "Volevo guadagnare per affittare un appartamento e portare qui mia moglie e le mie figlie dal Ghana. Di certo non posso farle vivere in questo container".
Alla sopraggiunta assenza di regole formali si è sostituito una sorta di codice ufficioso sulla cui applicazione vigilano i proclamati (o autoproclamati) leader del gruppo. Il recinto che separa l’area dell’ex tendopoli dal mondo esterno rispetto a prima è invisibile, ma forse per questo ancor più tangibile. Nell’insediamento non arriva acqua calda e per questo alcuni stanziali passano le giornate a riscaldarla in vecchi pentoloni ammaccati per poi venderla a chi rientra dal lavoro nei campi e ha necessità di lavarsi. Le prese per la corrente non sono sufficienti per il fabbisogno di tutti e per questo vengono “affittate” a chi può permettersele. Viene venduto di tutto, talvolta anche stupefacenti, come testimoniano le sette misure cautelari eseguite il 14 gennaio dai carabinieri di Gioia Tauro nell’ambito dell’operazione Marracash. C’è un punto in cui si raccolgono vestiti dismessi o raccattati altrove fino a riempire enormi buste, addirittura più pesanti dei ragazzi che le trascinano verso i camion incaricati di portarle al porto e imbarcarle verso casa, l’Africa subsahariana. Vicino a quello che una volta era l’ingresso c’è la baracca-officina dove vengono riparate le biciclette. Il ragazzo che sta dentro non vuol essere fotografato "perché ho paura per i documenti", ma permette di osservare la dedizione con la quale lavora. "Senza illuminazione siamo esposti a ogni genere di pericolo", dice l’imam, che da anni vive in quegli insediamenti. Nel cuore del campo, molto più grande delle altre, c’è la baracca-moschea, "la più pulita e meglio tenuta di tutte", dice uno degli agenti che presidiano quotidianamente l’area.
“Qui – lamenta il sindaco Tripodi – c’è stato sempre e solo un approccio emergenziale” al quale si è aggiunta una mera "visione caritativa" sul piano dell’emergenza abitativa e relativi finanziamenti. Urge quindi la tanto decantata “deghettizzazione” nemmeno sfiorata dalle precedenti operazioni di sgombero o, da ultimo, dagli stanziamenti relativi al Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami) legato ai progetti “Supreme Italia” e “Più Supreme” previsti però solo per gli insediamenti informali e per tale destinati, per la Piana di Gioia Tauro, al solo Comune di Taurianova per intervenire nel “ghetto” di contrada Russo, dove ancora oggi si trovano circa 70 persone.
“L'idea di fondo – ha comunicato il prefetto di Reggio Calabria Massimo Mariani – resta quella di offrire strutture di residenza che garantiscano la giusta dignità ai migranti. Strutture edili da ripristinare e trasformare in foresterie, con la disponibilità dei servizi essenziali”. Un’iniziativa che fa eco a quanto stabilito nell’ultimo protocollo d’intesa siglato in prefettura lo scorso 24 settembre e fortemente voluto dal ministro Luciana Lamorgese come testimoniava la presenza dell’ex capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione Michele Di Bari, dal canto suo, tra i principali protagonisti delle operazioni di sgombero di qualche anno fa in veste di prefetto (Di Bari si è dimesso dopo il coinvolgimento della moglie in un'inchiesta contro il caporalato, ndr). L’ultimo “tavolo” tra Regione Calabria, prefettura e Comuni interessati è di questo 7 febbraio. Gli esiti sono stati comunicati dal presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto accompagnato dall’assessore delegato Tilde Minasi, eletta in consiglio regionale (nonché senatrice “in stand-by”) con la Lega: “Siamo pronti a finanziare, attraverso l’utilizzo di specifici fondi comunitari, lo sgombero e la bonifica della tendopoli di San Ferdinando, e la parallela installazione – presso terreni di proprietà regionale – di moduli abitativi non permanenti che potranno essere usati in modo temporaneo dai migranti durante i mesi di lavoro nei campi”.
L’area designata potrebbe essere quella dell’ex opificio “Opera Sila”, dove avrebbe dovuto sorgere uno dei progetti più ambiziosi della Regione e oggi ridotto a un rudere. “Saranno incaricati i tecnici per valutare la fattibilità e poi si dovrà procedere a una progettazione sociale per individuare modalità e condizioni per la realizzazione della foresteria”, dice a lavialibera il sindaco Andrea Tripodi, presente all’incontro. L’area ha un’estensione di circa 43mila metri quadri “che, previa bonifica, potrebbe ospitare i moduli abitativi prefabbricati, ma anche i servizi ancillari per farne una vera e propria cittadella, un’esperienza che potrebbe fare scuola anche in altri territori”. Il primo cittadino aveva avanzato questa stessa proposta alla Regione nel 2018, quando presidente regionale col centrosinistra era Mario Oliverio, “ma non ricevemmo nessuna risposta”. Oggi Tripodi si dice fiducioso: “Le impressioni sono positive perché abbiamo preso atto della disponibilità della Regione a dare soluzioni alle problematiche legate all’accoglienza”.
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