20 dicembre 2021
“Lucano, dopo aver realizzato l’encomiabile progetto inclusivo dei migranti, che si traduceva nel così detto 'modello Riace', invidiato e preso ad esempio da tutto il mondo, essendosi reso conto che gli importi elargiti dallo Stato per governare quel fenomeno erano più che sufficienti allo scopo, piuttosto che restituire ciò che veniva versato, aveva ben pensato di reinvestire in forma privata la gran parte di quelle risorse”. L’estratto dalle motivazioni della sentenza del tribunale di Locri nel primo grado del processo Xenia è parte di una narrazione tanto amara quanto stridente. Imputato principale è l’ex sindaco del così detto borgo dell’accoglienza, Domenico “Mimmo” Lucano, condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione lo scorso 30 settembre. “Una condanna abnorme”, aveva detto a caldo e nei giorni successivi.
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La sintesi di 22 ipotesi accusatorie è tradotta nelle 904 pagine che raccontano il procedimento logico seguito dal Collegio presieduto dal giudice Fulvio Accurso. Il processo, come rappresentazione delle cronache di Riace, gravita attorno alla dicotomia tra buona fede – “eccesso di umanità”, per citare Luigi Ciotti – e cupidigia. La difesa avrebbe “guardato gli elementi di prova 'da lontano'" facendo leva “su una sorta di persecuzione politica” e per tale indossando “lenti deformanti” di cui sarebbe stata priva la procura di Locri, l’accusa, nell’offrire una “visione da vicino”.
“Il dibattimento – si legge – non ha neppure sfiorato la tematica dell’integrazione virtuosa e solidale praticata nei primi anni” tanto che “nelle intercettazioni e nei documenti non vi è nessuna traccia dei fantomatici 'reati di umanità'". Ne vengono fuori diverse facce dell'ex sindaco dell'accoglienza: quella raccontata da chi ha vissuto l’esperienza di Riace nel fiore dei suoi anni; quella rappresentata nelle parole dei magistrati; quella dello stesso Lucano che sfoga nel pianto la tensione dei giorni precedenti. Alla fine resta un verdetto che ha ancora molto da dire sul piano giuridico, ma che pesa come un macigno sull’esperienza umana del borgo.
“Io non mi inginocchio, piuttosto faccio 13 anni di galera – è la dura replica dell'ex sindaco dell'accoglienza –. Non patteggerò neppure per un solo giorno di carcere, non ho paura di andare in carcere per un ideale. La condanna non vuole colpire solo me, ma un'idea di politica dell'accoglienza che si è dimostrata vincente. Io rifarei tutto quello che ho fatto, e più forte di prima per un modello che non è quello di Mimmo Lucano, ma è il modello della libertà e del rispetto dei diritti umani". Dopo la lettura delle motivazioni gli avvocati di Lucano, Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, che presenteranno ricorso in appello, ribadiscono di essere “ancora più convinti della innocenza di Mimmo Lucano. Contesteremo nel merito i singoli capi d’imputazione e le argomentazioni dell’accusa e del tribunale, a partire da quelle sui reati più gravi: associazione a delinquere e peculato. Sulla prima, si possono condividere o meno le scelte sull’accoglienza e l’integrazione dei migranti ma certo non hanno portato a una associazione a delinquere che avrebbe peraltro agito per aiutare chi scappava dalla guerra, dalla violenza e dalla fame. La sentenza poi scambia per peculato le attività di valorizzazione del territorio".
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La sentenza ricostruisce un’immagine di Lucano – estratta in larga parte dalle intercettazioni – quale “'dominus' indiscusso di un sodalizio” che avrebbe “strumentalizzato il sistema dell’accoglienza a beneficio dell’immagine politica”. Un uomo che da un certo momento in poi avrebbe riposto nel cassetto l’originaria idea nata nel solco delle visioni utopiche di Tommaso Campanella, per lasciarsi divorare “dal demone ossessivo della ricerca di una sempre maggiore visibilità”. Di fatto, gran parte dei reati alla base della condanna, come la truffa aggravata o il peculato, fanno riferimento alla “mala gestio” dei progetti del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) e per i minori stranieri non accompagnati (Msna) attivi a Riace nel periodo che va dal 2014 al 2017.
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“Se esisteva un’associazione a delinquere, anche Ministero dell’Interno e Prefettura di Reggio Calabria ne facevano parte”, ha detto l’ex sindaco in quasi tutte le più recenti uscite pubbliche. Passaggi ricostruiti anche dal tribunale di Locri che si sofferma sull’utilizzo fatto a Riace dei fondi Sprar da un lato – “veri e propri finanziamenti a fondo perduto” erogati dal Viminale e spesso non rendicontati dal Comune – e Cas dall'altro, dove “le somme venivano erogate dalla Prefettura solo dietro la presentazione di specifiche fatture di spesa”, che spesso sarebbero state “gonfiate o falsificate”.
Tra Riace e la prefettura erano state infatti stipulate una serie di convenzioni (la prima nel 2014) per la gestione dei migranti. Dapprima per l'accoglienza di 100 persone, poi 127, poi 141. “Fino a che gli servivo ero san Lucano, ci trattavano come la discarica dell’accoglienza. Poi hanno voluto distruggere la nostra realtà”. Così Lucano commenta il rapporto con la prefettura, che spesso incontrava la sua disponibilità ad accogliere le persone che arrivavano in Italia ed erano di difficile collocazione negli altri centri. Le sempre più incessanti relazioni sull’andamento del progetto stilate dai funzionari prefettizi portano a riscontrare alcune “anomalie” che porteranno al blocco delle erogazioni per il Comune.
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Il prefetto di Reggio Calabria era in quel momento Michele Di Bari recente dimissionario dal ruolo di capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale dopo il coinvolgimento della moglie, Rosalba Bisceglia, in un’indagine contro lo sfruttamento lavorativo dei braccianti, stanziali al ghetto di Borgo Mezzanone, avviata dalla procura di Foggia.
Di Bari era stato promosso al Viminale dall’allora ministro dell'Interno Matteo Salvini, potendo vantare nel suo curriculum il coordinamento delle operazioni di sgombero dell’ex baraccopoli di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro e, in qualche modo, lo scalpo di Riace. Quest’ultimo ravvisato nella durezza di alcune relazioni, tra cui quella firmata dall’allora viceprefetto Salvatore Gullì secondo cui nel borgo vigeva il “caos amministrativo” che induceva a pensare la possibile esistenza di “profili di responsabilità penale”. Un invito colto, come dirà il procuratore capo di Locri Luigi D’Alessio durante la requisitoria, per dare impulso all’indagine e al processo Xenia.
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“Vi invito a leggere le trascrizioni, soprattutto dove l’accusa e gli investigatori dicono 'questo sindaco non ha toccato un euro'". Il primo ottobre, giorno dopo la lettura del dispositivo, Lucano riceve l’abbraccio della sua gente nella piazza del borgo. Si interroga sul presupposto che ha spinto i giudici a condannarlo per quei reati posto che “non ci sono soldi sul mio conto in banca”.
Nelle motivazioni del tribunale di Locri, a riguardo, emerge un altro passaggio cruciale e per certi aspetti controverso: “Nulla importa – scrivono i giudici – che l’ex sindaco di Riace sia stato trovato senza un euro in tasca, perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza”. Nella ricostruzione del Collegio – che sposa in parte l’ipotesi del movente politico propugnata da un certo momento in poi dalla procura – l’ex sindaco avrebbe “agito allo scopo di consentire agli altri suoi correi di realizzare cospicui profitti, della portata di milioni di euro, che mai avrebbero potuto raggiungere senza la sua approvazione” e che di converso gli avrebbero consentito “di ricevere il loro sostegno elettorale per alimentare l’immagine del politico 'illuminato' che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo”.
Lucano, "pur senza un euro in tasca" avrebbe agito per “consentire agli altri suoi correi di realizzare cospicui profitti, della portata di milioni di euro” e “ricevere il loro sostegno elettorale per alimentare l’immagine del politico 'illuminato' che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo”motivazioni sentenza di condanna di primo grado del processo Xenia
Se ne traggono due spunti: secondo i giudici, Lucano era rappresentazione di un mondo “privo di idealità” e “soggiogato da calcoli politici”. Calcoli fini a loro stessi se si considera che lo scorso 2019 l’ex primo cittadino del borgo dell’accoglienza aveva rifiutato una candidatura – proposta da più parti – alle elezioni europee. Dopo aver partecipato, durante il periodo in cui vigeva nei suoi confronti la misura del divieto di dimora, alle amministrative di Riace come candidato consigliere, Lucano ha accettato la sola chiamata del candidato governatore Luigi de Magistris alle recenti regionali in Calabria ottenendo circa 10mila voti in tutta la regione.
Il secondo aspetto, forse più oscuro, riguarda i collaboratori e le persone vicine all’ex sindaco, molte delle quali risultano tra i 27 imputati (16 condannati) in questo stesso processo. Il tribunale di Locri torna su una serie di interrogativi rimasti inevasi nel dibattimento anche a fronte del rifiuto, opposto da Lucano, di sottoporsi all’esame. Tra questi, le ingenti somme di cui poteva disporre la compagna, Tesfahun Lemlem, condannata a 4 anni e 4 mesi, “che viveva in una casa riccamente arredata coi fondi dello Sprar”. “Nessuna spiegazione convincente – scrivono i giudici a proposito di Lucano – ha inteso fornire circa le ragioni per le quali aveva tollerato che i suoi più stretti collaboratori avessero posto in essere numerosi reati, di cui egli era a piena conoscenza, la cui commissione aveva ugualmente supportato di buon grado, con il suo comportamento omissivo”.
Lo scorso 6 novembre viene organizzata a Riace una manifestazione nazionale che vede, tra gli altri, il dialogo tra Lucano e il giornalista Gad Lerner: “Da un lato – dice l’ex sindaco, visibilmente provato dai giorni successivi alla sentenza – vedo l’umanità e la fraternità di una comunità che senza pregiudizi si chiede se esista una soluzione al problema delle migrazioni; dall’altro, un’onda nera che avanza in tutto il mondo e umilia chi rivendica diritti umani”.
Durante la marcia, nata dall’idea di padre Alex Zanotelli durante la Perugia-Assisi, alcuni bambini, immigrati-riacesi di seconda generazione, iniziano a cantare Bella Ciao. L’anfiteatro arcobaleno, un tempo avamposto di speranza, pare diventare una sorta di trincea dove l’ex sindaco tenta di ripararsi dagli eventi in corso. I volti noti sono molti, sicuramente di più rispetto a quelli dei riacesi. Avventurandosi per le vie del borgo, durante quegli stessi attimi, l’unica luce che è possibile scorgere è quella irradiata dalla porta socchiusa di un laboratorio artigiano dove una donna sta compiendo le ultime incombenze della giornata. Le altre porte sono chiuse. È chiusa la porta di palazzo Pinnarò, sede di Città Futura, l'associazione capofila nella gestione dei progetti per l’accoglienza, appena sotto al “villaggio globale” che un tempo dava l’impressione di essere un piccolo mondo al riparo dal resto del mondo.
"Si tratta di una sentenza contraddittoria nel merito oltre che sproporzionata nella pena – ribadiscono i legali di Lucano –. Ricorreremo in appello e in tutte le sedi preposte perché è per noi evidente che solo un esito processuale diverso possa restituire dignità, solidarietà e giustizia a Riace e a Mimmo Lucano". Ma nel buio delle stradine di un borgo dell’entroterra, incastonato tra le colline e la statale 106, già oggi pare leggersi una sentenza definitiva.
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