17 maggio 2022
L’attenzione è rivolta ai trent’anni dalle stragi di Cosa nostra, ma ne sono passati quaranta dalla guerra di mafia. Sono stati anni in cui la violenza mafiosa ha segnato la nostra quotidianità, marcato la storia non solo della Sicilia ma di tutto il Paese. Se la violenza interna ha raggiunto picchi inusitati, quella rivolta all’esterno ha assunto i caratteri di un colpo di Stato, decimato una classe dirigente e dichiarato guerra alle istituzioni. Delirio di onnipotenza criminale o strategia sanguinaria per imporre una trattativa o una resa? "Si fa la guerra per fare la pace", diceva Totò Riina. Era la versione corleonese del Si vis pacem para bellum.
Dal bilancio che si potrebbe fare la mafia non ne esce certo vincente, come vuole lo stereotipo secondo cui "la mafia è sempre più forte di prima". La legge antimafia del 1982 (per approvarla c’è voluto l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa), il maxiprocesso e le leggi dopo le stragi dei primi anni Novanta hanno portato alle condanne di capi e gregari, smantellando l’organizzazione. Poi ci sono stati mutamenti a vari livelli. È crollato il socialismo reale e la mafia non deve più fare da baluardo contro ogni prospettiva di rinnovamento; è scomparso pure il grande partito di riferimento e il contesto politico è segnato dall’instabilità. Bisogna giocare su più tavoli, come in tutti i periodi di transizione, in attesa di un nuovo vincitore. La mafia non spara più e si parla di mutazione antropologica. La violenza, l’intimidazione sono state sostituite dalla corruzione e Cosa nostra sarebbe diventata manageriale e mercatista. Ma la violenza non c’è solo quando è attuata, può essere potenziale ed eventuale e, comunque, rimane il marchio identitario del fenomeno mafioso in tutte le sue articolazioni. Non pare sia arrivato il momento di una definitiva e irreversibile iscrizione al club delle lobby o delle logge.
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Rimane l’eterno mistero italiano, la partita mai chiusa dei delitti e delle stragi che si usa etichettare politico-mafiosi. Solo mafia? Alla domanda si risponde ripristinando un vecchio copione: i servizi cosiddetti deviati, la massoneria anch’essa deviata con l’aggiunta di Gladio, della Falange armata o altre entità. Ed entra in scena un ospite abituale, si chiama depistaggio, l’abbiamo incontrato molte volte e siamo riusciti a sollevarne il velo, anche se non interamente, per l’assassinio di Peppino Impastato, con una relazione della Commissione parlamentare antimafia che pubblica i nomi e cognomi dei depistatori. Ma per le stragi del ’92 e del ’93 sono in scena solo comparse, come gli imputati nell’ennesimo processo per l’attentato di via D’Amelio. Che fine ha fatto la famosa agenda rossa? Si potrebbe rispondere: la fine di tutti gli oggetti che potevano costituire elementi di prova. Che senso hanno le parole di Giuseppe Graviano a uno spaesato Gaspare Spatuzza, che capisce e giustifica l’ecatombe dei magistrati, nemici dichiarati di Cosa nostra, ma non capisce cosa c’entrano i picciriddi sacrificati nella notte di Firenze? Graviano, che gli fa da mentore nel suo apprendistato delle strategie di Cosa nostra, spiega e giustifica: "Ci hanno chiesto una cortesia e ci hanno messo l’Italia nelle mani". I riferimenti sarebbero Silvio Berlusconi e il “paesano” Marcello Dell’Utri. Scampoli di verità o millantato credito di un capomafia che si dichiara tradito da inaffidabili alleati ed esibisce, in una chiacchierata in un caffè di via Veneto, a Roma, i nuovi alleati nella lotta per il potere? Perché di questo si tratta e non è una novità, ma una costante nella morfologia del potere nel nostro Paese e non solo. Il potere com’è realmente e non come dice di essere o dovrebbe essere, la costituzione materiale che mette da canto la costituzione formale.
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"Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati?"
L’antimafia, dopo le grandi manifestazioni suscitate dall’emozione per i grandi delitti e le stragi, ha continuato la sua attività con le scuole, l’antiracket e l’uso sociale dei beni confiscati con qualche inconveniente. I personaggi di cui hanno parlato le cronache giudiziarie sono casi isolati o le variabili di un sistema che ha fatto dell’antimafia un business e una vetrina? L’antimafia richiede coerenza tra la predicazione e la pratica quotidiana e su questo terreno ci si divide. Ma bisogna dire che le divisioni nascono anche da una sorta di monoteismo che considera la pluralità una colpa e un’eresia.
Mentre scriviamo la pandemia è ancora in giro e non cessano i massacri in Ucraina, che potrebbero preludere alla guerra nucleare. Si parla degli affari che potrebbero fare le mafie, ma il problema va ben oltre le mafie. La guerra è il più orrendo dei crimini e gli attori sono gli Stati, che agiscono come macromafie. Sant’Agostino diceva: "Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati?". Una specularità tra Stati ingiusti e forme di criminalità che più che storia antica è storia contemporanea.
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