Il settore della macellazione è uno di quelli in cui, per via dei diversi contratti, avviene il dumping salariale (Inigo De la Maza/Unsplash)
Il settore della macellazione è uno di quelli in cui, per via dei diversi contratti, avviene il dumping salariale (Inigo De la Maza/Unsplash)

Stesso mestiere, stipendio diverso. La trappola dei contratti

Guadagni minimi a fronte di grandi responsabilità e paghe sbilanciate a parità di ore. Le storture del mercato del lavoro sono evidenti e legalizzate, calpestano i diritti e i principi della Costituzione

Andrea Dotti

Andrea DottiGiornalista

13 luglio 2022

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Un contratto full time, dal lunedì al venerdì, più il sabato ogni due settimane. La busta paga a fine mese registrava 1.000 euro lordi, che al netto significa poco più di 850 euro. Tabelle alla mano: meno di sette euro l’ora. È l’esperienza di Michela (nome di fantasia), ex impiegata addetta al desk in un negozio di Torino.

Attenzione, caduta operai 

L'inquadramento era l’apprendistato, ma solo sulla carta. Il suo lavoro non aveva nulla a che fare con quello di apprendista, ma questa formula permette alle aziende di inquadrare i dipendenti con il livello più basso possibile. Eppure le responsabilità erano quelle di una dipendente già formata: aprire e chiudere il negozio in autonomia, gestire la cassa e il rapporto diretto con i clienti. Anche l'orario era impegnativo. Si trattava del cosiddetto "spezzato": iniziava al mattino, pausa di quasi tre ore a pranzo e poi si tirava avanti fino a chiusura. Non si arriva a casa prima delle nove di sera. Per due anni Michela ha vissuto così, il contratto era regolare e non c'era nessun appiglio legale a cui aggrapparsi. Poi ha trovato un posto migliore.

Corsa al ribasso

La storia di Michela è simile a quella dei quasi 400 mila lavoratori assunti con i cosiddetti contratti collettivi minori, sottoscritti da organizzazioni datoriali e sindacali poco rappresentative, che non appartengono al mondo industriale classico (ad esempio Confindustria, Confcommercio o Legacoop) e al sindacalismo confederale (Cgil, Cisl e Uil).

La questione salariale passa anche da qui. Molti di questi contratti possono avere retribuzioni basse: fino a 700 euro al mese in meno rispetto agli accordi classici: se Michela avesse firmato uno dei contratti maggiori, la sua busta paga sarebbe stata di circa 1.300 euro.

È il cosiddetto dumping contrattuale: una forza erosiva al ribasso, messa in atto da piccole imprese, che mira ad abbattere i costi tramite la compressione dei salari, per generare profitto. Un modus operandi che ha portato diversi analisti e militanti sindacali a definire questi contratti “pirata”, proprio a causa delle loro caratteristiche predatorie sul mercato del lavoro. Di pirata, però, non c’è nulla: è tutto perfettamente legale.

Un fenomeno che trova sostanza in un’infinità di piccoli contratti collettivi, diretta manifestazione di un tessuto economico di piccole imprese, il cui obiettivo sembra essere portare la contrattazione a una forma puramente aziendale, in deroga ai contratti collettivi nazionali, e la cui competitività si basa proprio sulla contrazione dei salari.

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Dumping contrattuale

In tema di contrattazione, le maglie della legge sono molto larghe. L’articolo 39 della nostra Costituzione, infatti, non pone nessun tipo di vincolo alle organizzazioni sindacali e datoriali

In questo senso, la Fondazione Di Vittorio ha condotto uno studio comparativo. Ad esempio, la paga di un macellaio con Ccnl Terziario siglato da Confesercenti e sindacati confederali, è di quasi 1.800 euro; per la stessa professione, ma con un contratto siglato da For.Italy e Ugl, lo stipendio arriva a malapena a 1.000 euro. Per un banconiere, invece, la forbice è di 600 euro. Un barman con contratto Federturismo ha una paga tabellare di oltre 1.500, ma un suo collega con contratto Anpit/Cisal supera di poco i mille. Ma non solo: in alcuni casi sono previste indennità minori per straordinari e turni disagiati, pagamenti parziali per giorni di malattia e assenza di quattordicesima.

Ciò accade perché nel settore privato, in tema di contrattazione, le maglie della legge sono molto larghe. L’articolo 39 della nostra Costituzione, infatti, non pone nessun tipo di vincolo alle organizzazioni sindacali e datoriali: "L’organizzazione sindacale è libera". In questo modo, i principi antifascisti costituzionali diventano un escamotage per abbassare il costo del lavoro e creare profitto.

È all’interno di queste crepe normative che si inserisce il dumping contrattuale. "Il sistema di relazioni contrattuali e industriali è caratterizzato da una sostanziale astensione del legislatore", spiega Salvo Leonardi, ricercatore della Fondazione Di Vittorio. Di fatto, una regolamentazione lasciata in mano all’iniziativa privata. "Bisogna rivendicare un sistema di regole certe che riducono la competizione sleale giocata sulle spalle dei lavoratori", ha aggiunto.

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I timori dei sindacati

"Il dumping contrattuale rappresenta, per il mondo dei servizi, quello che per l’industria manifatturiera hanno rappresentato le delocalizzazioni in paesi in cui il costo della manodopera è più basso"Salvo Leonardi - ricercatore Fondazione Di Vittorio

A difesa del lavoratore ci sarebbe l’articolo 36 della Costituzione, che garantisce il "diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro". Ma in Italia non c’è una legge che fissa un tetto minimo salariale. Senza una normativa concreta, il concetto di diritto a una giusta retribuzione rimane aleatorio o, al massimo, oggetto di verifica per i giudici del lavoro.

Troppo poco: questi contratti si stanno diffondendo a macchia d’olio, soprattutto nel terziario. Laddove non è possibile trasferire, si cerca di abbassare il costo del lavoro internamente. Ancora Leonardi: "Il dumping contrattuale rappresenta, per il mondo dei servizi, quello che per l’industria manifatturiera hanno rappresentato le delocalizzazioni in paesi in cui il costo della manodopera è più basso".

Sfruttamento e incidenti: questo non è un bel lavoro

Per provare ad arginare il fenomeno, Cgil, Cisl e Uil, insieme a Confindustria, hanno siglato nel 2014 il Testo unico sulla Rappresentanza. Si tratta di un accordo attraverso cui le parti si impegnano reciprocamente a riconoscere come interlocutori solamente le organizzazioni realmente rappresentative, censite calcolando iscritti ed eletti. L’obiettivo è tagliare fuori dalla contrattazione le associazioni datoriali troppo piccole e sindacati di comodo.
Un sistema che per ora regge: solo un quarto dei contratti porta la firma dei confederali, ma copre il 97 per cento dei lavoratori. Ma le fragilità sono evidenti, quasi 400 mila lavoratori sono tagliati fuori e il timore è che questo numero possa aumentare. Basti pensare che i contratti sono passati da 551 a 992 in undici anni, con una crescita dell’80 per cento. Inoltre, il Testo unico non ha ancora trovato una concretezza normativa e rimane un accordo tra le parti. una specie di gentlemen agreement. Senza una legge sulla rappresentanza o la definizione di un salario minimo legale, il mondo datoriale potrebbe frammentarsi ancora di più, spinto dalle pressioni ribassiste su stipendi e condizioni lavoro, mettendo a rischio anche i Ccnl più consolidati e rappresentativi.

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