26 gennaio 2022
21 ottobre 2021. Yaya Yafa, ventiduenne originario della Guinea-Bissau, muore mentre lavora all'Interporto di Bologna. Al suo terzo giorno da lavoratore interinale, durante il turno di notte, rimane incastrato tra la ribalta del magazzino e un mezzo pesante parcheggiato per il carico merce: muore sul colpo, per lo sfondamento del torace. Ad assumerlo era stata l’agenzia interinale InOpera e lui lavorava nell’ambito dell’appalto Dedalog in un magazzino di Sda, azienda del gruppo Poste Italiane che si occupa di spedizioni espresse nazionali. Dopo la morte, la procura ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo: da quel che risulta, l’unico indagato è il camionista del tir che ha schiacciato Yaya Yafa. Le indagini, però, si concentrano anche su altro e in particolare, sulla catena di appalti e subappalti del polo logistico.
Intanto, c’è chi parla di fatalità, chi di sacrificio e chi di omicidio, perché a Interporto ci sono state decine di incidenti: l’ultimo il 3 novembre, quando un ragazzo di ventuno anni ha perso sei dita mentre lavorava nel magazzino della Dhl. Il lavoratore stava sostituendo la catena del rullo di smistamento pacchi quando il rullo ha ripreso a funzionare, tranciandogli le dita. In questo caso il ragazzo era dipendente di una società esterna che si occupa di manutenzione, ma il rischio di infortunio è ancora più alto per i lavoratori interinali, che spesso cambiano azienda di settimana in settimana.
"Anche io lavoro a Sda, conoscevo Yaya Yafa – racconta un lavoratore interinale di Interporto incontrato alla stazione di San Giorgio di Piano, poco distante dal polo logistico –. Ha lavorato lunedì, martedì e mercoledì è morto. Non ci avevano mai fatto corsi sulla sicurezza sul lavoro, lo fanno solo quando qualcuno muore: quando lui è morto, ci hanno fatto fare un corso di due giorni e ci hanno fatto contratti di un mese. Se non fosse morta una persona sarebbe rimasto sempre così: dopo sei mesi ti buttano via".
Mal pagati e con poche tutele, voci di lavoratori "indispensabili" durante la pandemia
Quello dell'interporto è un sistema articolato. Il rischio che i diritti dei lavoratori si perdano di vista nelle lunghe catene di appalti e subappalti è elevatissimo
Interporto è un hub di oltre quattro milioni di metri quadri di capannoni, servizi e uffici relativi alla logistica che si distende nell’area metropolitana di Bologna tra i comuni di San Giorgio di Piano, Funo di Argelato e Castel Maggiore. Qui, migliaia di lavoratori e migliaia di mezzi ogni giorno si muovono entrando e uscendo da quella che può essere considerata a tutti gli effetti una città con confini ben precisi per accedervi. Interporto però è anche altro: è una società partecipata da enti pubblici, in particolare dal Comune di Bologna, che possiede il 35 per cento delle quote.
I fatti degli ultimi mesi, a partire dalla morte di Yaya Yafa, hanno fatto accendere i riflettori sul sistema che vige all’interno di questo hub logistico. Un sistema articolato in cui il rischio che i diritti dei lavoratori si perdano di vista nelle lunghe catene di appalti e subappalti è elevatissimo: "All’interno di Interporto ci sono centinaia di aziende, tra committenze e appalti: da un soggetto committente che affida in appalto alcuni pezzi del lavoro, a sua volta chi lo riceve può decidere di lavorare direttamente sulla commessa o di darlo, con il consenso del committente, in subappalto – afferma Antonio Monachetti, avvocato giuslavorista e attivista di Libera Bologna –. Da un punto di vista economico, il contratto di appalto viene stipulato quando il committente pensa che qualche altra azienda possa fare meglio il lavoro o a un minor costo, ma chiaramente più si allunga la catena e di conseguenza il numero di aziende coinvolte, più aumentano i soggetti che devono ricavare profitto dal lavoro. E abbiamo visto che purtroppo spessissimo le aziende ritagliano i guadagni riducendo i diritti dei lavoratori, in termini di sicurezza, di orario di lavoro, di salario".
"Da un lato la paura di perdere il lavoro, dall’altra la mancanza di conoscenza, ti portano ad accettare di tutto"Y. - Lavoratore straniero della logistica
"Uno che ha bisogno non ha tante scelte da fare. Sappiamo che non è giusto, ma che ci possiamo fare? A chi lo vai a dire? E chi ti ascolta?". Parla così Y., lavoratore dell’Interporto di Bologna. Per diversi mesi ha lavorato nel polo logistico alle porte del capoluogo emiliano tramite un’agenzia interinale: contratti brevi, luoghi di lavoro che cambiano ogni settimana, tutele bassissime, diritti sistematicamente violati. Un sistema che riguarda tutto l’hub e che va oltre, coinvolgendo tutto il settore logistico.
Nel tempo rimangano inalterati le aziende committenti e gli appaltatori, mentre cambiano continuamente le società in subappalto: nascono in pochi mesi e hanno una vita di breve durata, al massimo di un paio di anni, ma hanno spesso gli stessi proprietari e rappresentanti legali. In questa situazione i lavoratori fanno fatica a rivendicare diritti perché si espongono al grande rischio di azioni ritorsive. "Non avevo in mente che c’era il sindacato. Da lavoratore straniero arrivato da poco in Italia, come fai a sapere che diritti hai? Come fai a sapere che esiste un sindacato? Se denunci, pensi che se il sindacato chiama l’agenzia, poi ti richiama ancora a lavorare? Una volta che hai creato il problema, stai a casa. Da un lato la paura di perdere il lavoro, dall’altra la mancanza di conoscenza, ti portano ad accettare di tutto" dice Y., aggiungendo un ulteriore aspetto generato sempre dalla mancata conoscenza del sistema da parte dei lavoratori: "In una delle aziende che lavorano a Interporto ho fatto anche cinque ore senza pause con una persona addosso che mi spingeva a lavorare sempre di più, mi girava intorno, mi seguiva anche in bagno per farmi stare il meno tempo possibile in pausa. L’ho fatto, come la maggior parte di noi, perché pensavamo che una volta conosciuto il posto devi dimostrare di saper lavorare, così ti prendono. Quindi lavori più del doppio per dimostrare di valere". Ma le aziende sembrano essere consapevoli di questo meccanismo e ne approfittano, facendo lavorare di più le persone, senza per questo poi assumere la maggior parte dei lavoratori. Sei mesi di lavoro, e poi basta. Cambio di azienda per gli uni, nuovi lavoratori per le altre, per tenere sempre alla massima velocità la macchina e per avere sempre nuove persone inconsapevoli del sistema, della presenza dei sindacati, spesso anche della lingua italiana.
Il reato di caporalato, cos'è e come funziona
L’interporto è nel territorio di Bentivoglio, comune nella parte est della pianura bolognese: dista venti chilometri dal capoluogo emiliano e quaranta da Ferrara. Chi ci lavora vive in tutta l’Emilia e, se non si arriva in automobile, raggiungere l’hub logistico è difficile. Le modalità per arrivare a Interporto sono tre: arrivare nella stazione di Funo-Centergross, da dove parte una lunga strada protetta da guard-rail che porta all’ingresso principale di Interporto. Facendola a piedi, ci si mette circa quaranta minuti. Altrimenti, si può arrivare nei pressi di San Giorgio di Piano, o in autobus con il 97 o in treno, per arrivare nella parte finale dell’hub, dove ci sono aziende come Sda: per chi prende l’autobus la strada più veloce è quella che passa per il cosiddetto ponte di Bentivoglio, una strada ad alta percorrenza, senza marciapiedi e non protetta; dalla stazione di San Giorgio di Piano si può invece passare su una strada che attraversa i campi, ma, anche in questo caso, bisogna attraversare la parte finale del ponte di Bentivoglio, dove non c’è alcun attraversamento pedonale. L’ultima modalità è quella di arrivare con l’autobus tra San Giorgio di Piano e Funo, percorrere una strada che attraversa i campi e attraversare i binari, dove passano anche treni dell’alta velocità, per arrivare poi, superando diversi ostacoli, nella parte centrale del polo logistico.
Tre possibilità che dipendono dal mezzo che si usa – i piedi, la bicicletta, il monopattino elettrico –, il luogo dove si lavora all’interno di un hub lungo chilometri e gli orari di lavoro: non sempre, infatti, gli orari dei mezzi pubblici coincidono con quelli di inizio dei turni e c’è chi aspetta anche ore nel luogo più vicino a Interporto prima di iniziare a lavorare. Così, mentre le “merci viaggiano sui Binari del futuro”, come si legge sul sito di Interporto, lavoratori e lavoratrici rischiano la vita per arrivare sui luoghi di lavoro, soprattutto la notte, quando sono ancora di più invisibili.
A Fondi (Latina) la difficile sfida dello Stato alle mafie del mercato
"Il patto sottoscritto nel 2017 era un protocollo molto interessante, ma purtroppo nella pratica non è stato applicato"Antonio Monachetti - Libera Bologna
Già da qualche anno, la partecipazione pubblica di Interporto aveva portato il Comune di Bologna e la Città Metropolitana a sottoscrivere un Protocollo che prevedesse strumenti di monitoraggio delle relazioni e dei rapporti all’interno dell’hub logistico, con un focus specifico sui lavoratori e i loro diritti. "Il patto sottoscritto nel 2017 e scaduto un anno fa – afferma Monachetti di Libera Bologna – prevedeva, tra le altre misure, obblighi di comunicazione sui cambi appalto e sui subappalti per andare a indagare e tenere sotto controllo la filiera degli appalti. Era un Protocollo molto interessante, ma purtroppo nella pratica non è stato applicato, perché mancava un punto fondamentale: come fare a rendere coercitive le regole previste per evitare che rimanessero solo un libro dei sogni?".
Da qualche mese la nuova amministrazione di Bologna sembra intenzionata a riprendere in mano la situazione, attraverso un nuovo patto sulla logistica etica in tutta l’area metropolitana di Bologna, che si affianchi ad un nuovo Protocollo su Interporto e a una riforma dello statuto dell’hub, in modo tale che venga riaffermato l’interesse pubblico di una grande infrastruttura centrale per il futuro dell’area metropolitana. Sergio Lo Giudice, capo di gabinetto della città metropolitana di Bologna afferma che "l’obiettivo è un accordo che diventi un quadro di riferimento per chi lavora ad Interporto e per chi verrà nel futuro a lavorarci". Ma la sfida decisiva sarà come fare in modo che le regole inserite nei documenti di policy siano poi applicate nella pratica. "Quello che vogliamo produrre è un contesto generale in cui si generi l’interesse di chi lavora a Bologna a stare all’interno di certi standard di qualità del lavoro – conclude Lo Giudice – e se le aziende non stanno all’interno di questi parametri, si deve sapere che avranno il fiato sul collo non solo delle istituzioni normalmente preposte come l’ispettorato del lavoro, l’Asl, la questura e la prefettura, ma anche l’attenzione e la pressione delle amministrazioni comunali, della città metropolitana e di tutti gli altri attori firmatari della Carta della logistica etica e del nuovo Protocollo".
Quanto costa regolarizzare braccianti e badanti
"Ci sono delle pratiche di illegalità, come ad esempio l’evasione delle accise sul gasolio per l’autotrasporto: i mafiosi non detengono l’esclusiva di questo tipo di reato e magari lo hanno appreso facendo affari con altri soggetti che mafiosi non sono e che commettono forme di illegalità più comuni"Vittorio Mete - Professore associato Università di Firenze
Una lunga filiera di appalti e subappalti, controlli al momento poco efficaci, tutele basse. Tutti aspetti che riguardano anche le possibilità per organizzazioni criminali e mafiose infiltrarsi in un sistema da miliardi di fatturato: quello della logistica. I processi, le operazioni, le inchieste che hanno riguardato le mafie in Emilia-Romagna hanno infatti dimostrato un interesse sempre più ampio delle mafie verso il tessuto economico legale. Un’infiltrazione resa possibile non solo da una vasta zona grigia di imprenditori e professionisti collusi, ma anche da regole che non vengono rispettate e da uno scarso monitoraggio. Il risultato è un sistema economico legale che viene messo a rischio, dove i soldi sporchi cambiano le regole del sistema, dove viene messa a rischio la libera concorrenza, con appalti al ribasso e meccanismi in cui spesso le prime vittime sono le lavoratrici e i lavoratori, che finiscono nelle maglie di sfruttamento e caporalato. Un tema su cui ha lavorato, in particolare sul settore dell’autotrasporto in un altro territorio vicino, quello di Reggio Emilia, Vittorio Mete, professore associato dell’Università di Firenze: "Bisogna capire le caratteristiche del contesto – afferma Mete – perché non tutti i gruppi criminali sono uguali, non tutti fanno le stesse cose allo stesso modo e quindi non tutti hanno le stesse motivazioni per operare in un territorio non tradizionale. Un conto è se siamo davanti a un gruppo criminale che traffica in droga e che quindi ha probabilmente un eccesso di liquidità che può essere usato per reinvestire in attività formalmente legali, un altro conto è se abbiamo un gruppo criminale interessato all’Interporto che invece non è nel circuito della droga ma lo usa per fare affari, magari perché in Calabria, in Sicilia, in Campania, in Puglia o altrove ha una azienda di autotrasporti e che quindi usa quel luogo come base del suo giro di affari".
Il settore dell’autotrasporto è solo una piccola parte del “Sistema Interporto", ma può essere un aspetto da cui partire per un ragionamento più ampio sul settore della logistica: "I mafiosi – continua Mete –, da un punto di vista criminale, non sono soggetti così peculiari: nell’autotrasporto fanno esattamente le stesse cose che fanno gli altri e in alcuni casi imparano le illegalità da altri soggetti che sono illegali ma non mafiosi. Ci sono delle pratiche di illegalità, come ad esempio l’evasione delle accise sul gasolio per l’autotrasporto: i mafiosi non detengono l’esclusiva di questo tipo di reato e magari lo hanno appreso facendo affari con altri soggetti che mafiosi non sono e che commettono forme di illegalità più comuni".
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C’è poi un altro aspetto, che si inserisce nel campo spesso sfumato delle azioni illegali: "Ci possono essere casi in cui l’impresa mafiosa ha tutto l’interesse a rispettare la normativa lavoristica, fiscale e previdenziale – specifica Vittorio Mete –. Ciò succede perché l’imprenditore mafioso è esposto ad un’azione preventiva e repressiva 'speciale' da parte delle agenzie di contrasto, e le conseguenze per l’imprenditore e l’impresa di tali azioni possono essere esiziali. Succede anche perché dietro un’attività formalmente legale l’impresa mafiosa può celare traffici illeciti molto più remunerativi e che non val la pena mettere a repentaglio per 'banali' irregolarità contabili, fiscali o inerenti i rapporti di lavoro".
Insomma, fare luce su possibili infiltrazioni mafiose in un hub logistico grande come l’Interporto di Bologna non è semplice. In altri territori la Direzione investigativa antimafia nelle sue relazioni semestrali ha posto l’attenzione su alcuni interporti: ad esempio a Padova, dove il polo logistico viene considerato dall’organismo investigativo un “sistema infrastrutturale che alimenta un forte indotto economico, potenzialmente di interesse per le organizzazioni criminali di tipo mafioso”. Stesso ragionamento viene fatto per l’Interporto “Quadrante Europa” di Verona. Quello di Bologna, invece, non è mai finito, da quel che risulta, sotto le lenti degli investigatori, ma non per questo l’attenzione deve rimanere bassa sul tema delle infiltrazioni mafiose.
Intanto, nel vortice di meccanismi che mirano a una sempre maggiore produttività, il punto su cui fare leva sembra essere sempre lo stesso: il bisogno di lavorare. Meccanismi che riguardano tutti i settori economici, ancora di più quelli dove girano più soldi, dove le regole non vengono rispettate, dove non c’è controllo. E vale anche per un hub logistico grande come l’Interporto di Bologna: "Non va bene così, non va bene", dice un lavoratore di Sda, "ma i soldi a casa li devo portare, per vivere, per mangiare".
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