12 ottobre 2022
Zan, zandegi, azadi!, “donna, vita, libertà!”. È il grido che da ormai tre settimane corre per strade e piazze di decine di città iraniane. A scandirlo in coro sono migliaia di giovani donne, che a volte osano addirittura dare alle fiamme il proprio hijab (il velo che copre il capo lasciando scoperto il volto) e tagliarsi i capelli in pubblico in segno di ribellione alla Repubblica islamica alla guida del Paese dal 1979. La risposta del regime dei mullah alle manifestazioni in Iran è stata sanguinaria. Secondo l’ong Iran human rights, sono 201 le persone morte nel corso delle proteste dal 16 settembre (giorno dell'uccisione di Mahsa Amini) a oggi a causa della repressione delle forze dell’ordine iraniane.
Le proteste hanno attirato l’attenzione della stampa internazionale e guadagnato la simpatia degli utenti dei social network. Celebrità e cittadini hanno iniziato a condividere video in cui si tagliano una ciocca di capelli in solidarietà alle manifestanti. Ciò che c’è in gioco nelle piazze iraniane va però ben oltre la questione dell’hijab. Cerchiamo di capire da dove nascono le proteste e dove possono arrivare.
"Il potere maschile è dominio sessuale". Intervista a Sarantis Thanopulos
Sui cartelli esposti in piazza compare spesso un volto: quello di Mahsa Amini, 22enne originaria del Kurdistan iraniano morta lo scorso 16 settembre sotto la custodia della Gasht-e ershad, la “polizia morale” iraniana incaricata di vigilare sul rispetto del buon costume. In visita a Teheran con la famiglia, la ragazza era stata arrestata tre giorni prima per “tenuta inappropriata” – non è chiaro se non stesse portando correttamente l’hijab o se indossasse pantaloni troppo aderenti – e condotta in una centrale di polizia della capitale. Qui, secondo i testimoni, sarebbe stata picchiata dagli agenti fino al coma e al decesso in ospedale.
Mahsa Amini è solo l'ultima vittima di una brutale repressione di comportamenti non conformi al codice d'abbigliamento che prevede, oltre all’obbligo di indossare l’hijab, anche il divieto di portare un trucco troppo evidente, capi attillati o dai colori appariscenti
Quello di cui è stata vittima Mahsa Amini è solo l’ultimo episodio di brutale repressione di comportamenti non conformi al codice d'abbigliamento, che prevede, oltre all’obbligo di indossare l’hijab che copra i capelli, anche il divieto di portare un trucco troppo evidente, capi attillati o dai colori appariscenti. Queste norme furono introdottedall'ayatollah Khomeini subito dopo la rivoluzione del 1979, ma da allora, come ha spiegato la ricercatrice Assal Rad in una recente intervista a TheAnalysis.com, sono state implementate più o meno severamente a seconda del grado di “conservatorismo” delle autorità locali e nazionali. Da quando l’ultra-conservatore Ebrahim Raissi è stato eletto presidente della Repubblica, a giugno dell’anno scorso, il controllo sulla tenuta delle iraniane ad opera della Gasht-e ershad si è fatto più intenso, e le proteste di queste settimane nascono (anche) in reazione a questa stretta.
Sarebbe però riduttivo raccontare la mobilitazione che sta attraversando il Paese come animata solo dalla rivendicazione di maggiore libertà nello scegliere cosa indossare: il caso di Mahsa Amini si è rivelato catalizzatore di un malcontento molto più ampio, che trascende genere ed età. Le condizioni di vita degli iraniani e delle iraniane sono compromesse da anni a causa di un sistema economico fragile, anche perché ancora dipendente dalla rendita del petrolio.
Chi protesta lamenta un regime autoreferenziale, permeato dalla corruzione, nemico delle libertà personali e collettive, e sempre più militarizzato a causa della crescente influenza esercitata dai Pasdaran
Ad aggravare la situazione ci hanno pensato poi la pandemia, di cui l'Iran trascina ancora gli effetti in termini di disoccupazione, la guerra in Ucraina, con le sue conseguenze sui prezzi e sulla disponibilità dei beni di prima necessità, e la siccità, che negli ultimi mesi ha reso l'acqua potabile una risorsa rara nel paese (come riportato dalla Banca Mondiale). Ma è sul piano politico che si concentrano le rivendicazioni delle piazze iraniane, nelle quali uno degli slogan più frequenti è “morte al dittatore”. Chi protesta lamenta un regime autoreferenziale, permeato dalla corruzione, nemico delle libertà personali e collettive, a partire dalla libertà d’informazione, e sempre più militarizzato a causa della crescente influenza esercitata dai Pasdaran, corpo armato sotto il diretto controllo della Guida suprema.
C’è da dire che l’Iran non è nuovo a mobilitazioni di massa simili a quella in corso e animate dalle stesse motivazioni di fondo, sebbene cambi di volta in volta la causa scatenante. Basti ricordare l’ "onda verde” nata in seguito alla rielezione, ritenuta fraudolenta, del conservatore Mahmud Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica nel 2009, o i movimenti di piazza sorti a cavallo tra il 2019 ed il 2020 in reazione all’aumento del prezzo del carburante.
Questa volta però – concordano gli analisti – è diverso. È diverso innanzitutto perché a guidare le proteste sono le donne. Ed è diverso perché, a differenza dei movimenti precedenti, limitati ad alcuni segmenti della società iraniana, sotto la guida di queste giovani donne si sono radunate folle estremamente eterogenee: “Attorno alla contestazione stanno convergendo diverse istanze provenienti da tutto il Paese”, ha spiegato al Financial Times Sanam Vakil, vicedirettrice del programma Nord Africa e Medio Oriente del Royal institute of international affairs di Londra. “Ci sono i curdi, ci sono i beluci del sud dell’Iran, ci sono gli operai frustrati. I negozianti sono in sciopero ed anche gli studenti ora si stanno mobilitando”.
Ciò che non cambia, invece, è la risposta del regime: secondo l’ong Iran human rights, sono 201 i manifestanti morti dal 16 settembre ad oggi a causa della repressione delle forze dell’ordine iraniane. Durante le proteste di novembre 2019, Amnesty international aveva registrato 321 vittime. Non è poi mancato l’ormai consueto ricorso alla censura online, con l’interruzione della connessione a Internet nelle regioni più interessate dalle proteste e la limitazione dell’accesso a WhatsApp ed Instagram, due delle poche piattaforme internazionali ancora autorizzate ad operare nel paese (NetBlock). Una tecnica ormai consolidata, come ha mostrato l’inchiesta A web of impunity condotta da Amnesty international e l’Hertie school di Berlino sulla portata della censura online imposta dal regime durante le proteste del 2019. Parallelamente, l’establishment politico-religioso che fa capo alla Guida suprema Khamenei ha attivato la macchina della propaganda per screditare la contestazione dipingendola come pilotata dall’estero – in particolare “dagli Stati Uniti e dal regime sionista”, riprendendo le parole dello stesso Khamenei – e promuovendo l’organizzazione di contro-manifestazioni a sostegno del regime.
E mentre la spirale contestazione-repressione continua con sempre maggiore violenza, chi guarda da fuori si chiede fin dove possano arrivare le proteste: la caduta del regime? Qualche concessione puntuale sul tema dell’hijab? Oppure un nulla di fatto come accaduto per i vari movimenti che ciclicamente si sono ripetuti nella storia dell’Iran post-rivoluzionario? Se l’ampia e trasversale partecipazione alle proteste sottolineata in precedenza alimenta l’ottimismo di chi spera nella caduta – o quantomeno nella riforma – del regime di Khamenei, altri fattori suggeriscono prudenza.
Se l’ampia e trasversale partecipazione alle proteste sottolineata in precedenza alimenta l’ottimismo di chi spera nella caduta – o quantomeno nella riforma – del regime di Khamenei, altri fattori suggeriscono prudenza
In primo luogo, la mobilitazione in corso sembra soffrire del paradosso che colpisce tutti i movimenti sociali dell’era digitale, come ha messo in luce nei suoi studi la sociologa turco-statunitense Zeynep Tufekci: grazie ai social network raccolgono rapidamente un ampio consenso, ma spesso mancano dell’organizzazione e della progettualità necessarie per tradurre tale consenso in cambiamenti tangibili. In secondo luogo, come ha evidenziato il direttore del programma Iran presso il Middle East Institute Alex Vatanka parlando con Insider, manca un leader capace di indirizzare il malcontento verso un obiettivo politico preciso, come seppe fare Khomeini durante la rivoluzione del 1979. Infine, la questione della rappresentatività: è lecito chiedersi quanto la massa scesa in piazza rifletta la volontà del resto della popolazione, in un paese che – certo, con un tasso di partecipazione inferiore al 50 per cento – nelle ultime due tornate elettorali ha scelto a larghissima maggioranza di consegnare parlamento e presidenza nelle mani di quei conservatori da cui oggi la folla dice di volersi liberare.
Crediamo in un giornalismo di servizio ai cittadini, in notizie che non scadono il giorno dopo. Aiutaci a offrire un'informazione di qualità, sostieni lavialibera
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti
Record di presenze negli istituti penali e di provvedimenti di pubblica sicurezza: i dati inediti raccolti da lavialibera mostrano un'impennata nelle misure punitive nei confronti dei minori. "Una retromarcia decisa e spericolata", denuncia Luigi Ciotti
La tua donazione ci servirà a mantenere il sito accessibile a tutti