Un deposito di rifiuti tessili in Cambogia (Francois Le Nguyen/Unslpash)
Un deposito di rifiuti tessili in Cambogia (Francois Le Nguyen/Unslpash)

Vestiti usati e camorra fashion

L'abbigliamento di seconda mano va di moda ed è più sostenibile per l'ambiente. Piace ai giovani ma anche alle mafie, che sui rifiuti della fast fashion hanno costruito un business illegale

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

25 novembre 2022

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Vestiti, scarpe e accessori usati possono trovare nuova vita. Lo sanno i gestori di negozi vintage, i giovani che usano le app per vendere e comprare abiti e sneaker di seconda mano o che frequentano i mercatini dove è possibile acquistare “al chilo”, ma anche alcuni imprenditori interessati a trarne grossi profitti operando nell’illegalità. "Abbiamo sentore di un crescente interesse della criminalità organizzata nella gestione di questo traffico illecito di indumenti proveniente dalla raccolta operata sul territorio", ha spiegato il 29 gennaio 2019 alla commissione parlamentare Ecomafie il generale della guardia di finanza Giuseppe Arbore. L’organismo, presieduto durante la scorsa legislatura dal deputato Stefano Vignaroli, ha approfondito il tema per scoprire le falle del sistema: "La nostra analisi può fornire un aiuto al settore in vista dell’introduzione del principio di responsabilità estesa del produttore, che diverrà anche responsabile dello smaltimento del rifiuto", spiega l’onorevole a lavialibera

Infografica: Fast fashion, un amore sintetico

Il ciclo dei rifiuti tessili

Stefano Vignaroli, presidente della commissione Ecomafie (18a legislatura) in sopralluogo in un deposito di abiti usati (Facebook)
Stefano Vignaroli, presidente della commissione Ecomafie (18a legislatura) in sopralluogo in un deposito di abiti usati (Facebook)

"L’industria della moda è un settore molto inquinante", spiega ancora Vignaroli. Lo è soprattutto la fast fashion, ovvero la produzione e il commercio di vestiti a basso costo, poco durevoli e poco sostenibili, contro cui la commissione europea ha presentato una serie di iniziative. Oltre all’utilizzo di enormi quantità di acqua e l’emissione di sostanze nocive, la fast fashion comporta una sovrapproduzione di abiti, spesso di scarsa qualità: molti restano invenduti, tanti si rovinano presto e diventano rifiuto. Secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), in Italia ogni anno 663mila tonnellate di rifiuti tessili finiscono nelle discariche o nei termovalorizzatori, pari al 5,7 per cento dei rifiuti indifferenziati totali. Il riutilizzo e il riciclo degli indumenti usati sono tasselli fondamentali dell’economia circolare. Eppure, soltanto una minima parte viene raccolta nei cassonetti gialli: nel 2019, ad esempio, ne sono stati accumulati 160mila tonnellate a livello nazionale, una piccolissima parte rispetto ai 30 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani. Secondo le stime del settore, dalle raccolte di indumenti usati si può ottenere il 68 per cento di “materia prima seconda” (mps), cioè abiti da recuperare e reintrodurre nel mercato. Un altro 3 per cento viene catalogato come rifiuto da smaltire, mentre il restante 29 per cento è costituito da scarti da cui è possibile recuperare nuovo filato per realizzare imbottiture, pannelli fono-assorbenti e altri materiali. In questa filiera, che parte dalla raccolta, passa attraverso i selezionatori e poi torna alla distribuzione o finisce nelle discariche, possono inserirsi imprenditori con pochi scrupoli, spalleggiati dai clan di camorra o, più semplicemente, meno attenti all’ambiente.

Gli interessi della camorra

Molte aziende di smistamento si trovano a Ercolano, centro nevralgico del “mercato degli stracci”, nato nel Dopoguerra

Nel 2009, ad accendere i riflettori sul settore è stata la Direzione distrettuale antimafia di Firenze, con l’allora sostituto procuratore Ettore Squillace Greco. È stato lui a coordinare l’indagine su un sistema illecito di smaltimento e vendita di abiti usati, che aveva come base operativa l’impresa pratese Eurotess e vedeva il coinvolgimento di un uomo vicino alla camorra di Ercolano, in particolare al clan Birra-Iacomino. Come ha spiegato Squillace Greco alla commissione Ecomafie, all’azienda toscana arrivavano vestiti usati raccolti in tutto il Nord Italia per essere selezionati: in particolare, quelli scartati erano smaltiti secondo le norme mentre quelli buoni avrebbero dovuto raggiungere "il mercato, molto fiorente, di Ercolano", ma solo dopo essere stati igienizzati. Peccato che i vestiti arrivassero direttamente in Campania senza che le norme ambientali e igieniche fossero rispettate. Lì, ai piedi del Vesuvio, nel dopoguerra si era affermato un importante mercato per vendere prima i prodotti del deposito dell’esercito statunitense e poi gli abiti second hand inviati dagli emigrati di Ercolano negli Usa. "Quelle prime grosse balle di indumenti costituirono una fonte di lucro per molti individui intraprendenti, che gettarono le basi per il mercato degli stracci destinato a fare di Resina il centro del commercio al minuto dell’usato", si legge nella relazione della commissione Ecomafie. Questo settore ha attratto anche la criminalità locale. "In questa zona da sempre esiste una sorta di influenza significativa della camorra e, in particolare, di questo clan Birra-Iacomino", ha detto Squillace Greco alla commissione.

Fast fashion, la moda insostenibile che distrugge il pianeta e sfrutta i lavoratori

Finte cooperative, abusivi e ambiguità

A Roma alcune finte cooperative legate al clan Birra facevano credere che la raccolta fosse fatta per fini umanitari, ma non era così

Le procure di Roma, Milano e Potenza  – come ha riferito nel maggio 2019 alla commissione parlamentare l’allora procuratore nazionale antimafiaFederico Cafiero de Raho – hanno acceso i riflettori su questi affari. "La vicenda romana – si legge nella relazione – è caratterizzata da gravi illeciti ambientali e presenze criminali, oltre che da episodi di turbativa d’asta e ingannevolezza nel messaggio solidale". La società municipalizzata Ama aveva assegnato a un consorzio la raccolta di indumenti usati che, a sua volta, aveva affidato il servizio a tre ditte. Per la magistratura romana, i beneficiari finali erano alcuni uomini della famiglia Cozzolino di Ercolano, vicina al clan Birra. Oltre alle infiltrazioni camorristiche, c’era altro: le scritte sui cassonetti facevano ritenere che la raccolta fosse fatta per fini umanitari e non commerciali. Per questa ragione l’Autorità garante del mercato ha multato la municipalizzata e le ditte. In seguito, dopo una gara pubblica, il servizio è stato riaffidato a un’altra società, la Humana People to People, importante azienda del settore, colpita da un incendio doloso avvenuto a Pomezia il 22 gennaio 2019.

Ci sono poi i casi dei cassonetti abusivi, migliaia in tutta Italia secondo le stime del settore. Tra Siena e Arezzo, una cooperativa perugina legata a una società di Orta di Atessa, in provincia di Caserta, ha installato i suoi cassonetti senza autorizzazioni e uno dei dirigenti ha condotto una campagna per la raccolta di abiti usati negli istituti scolastici della provincia di Arezzo, presentandosi come cooperativa avente scopi umanitari mentre si trattava di una società specializzata nel commercio di rifiuti, in particolare abiti usati, riassume la commissione Ecomafie.

"In passato ci sono state ambiguità sugli obiettivi della raccolta", spiega Andrea Fluttero, presidente dell’Unione delle imprese della raccolta, riuso e riciclo dell’abbigliamento usato (Unirau) e della cooperativa Società e lavoro, attiva in Piemonte. "La raccolta di abiti usati – aggiunge – è nata intorno alle parrocchie, che donavano i vestiti ai bisognosi. In seguito, gli abiti raccolti venivano venduti per ottenere denaro utile alle attività parrocchiali e il sistema è cambiato". 

Francesco Marsico, rappresentante della Caritas italiana, ha spiegato alla commissione che "la maturazione di esperienze più strutturate di raccolta di indumenti usati sul territorio diocesano ha favorito l’inserimento sociale e lavorativo per soggetti fragili". Purtroppo si è generata confusione, qualcuno pensa che i raccoglitori siano per i rifiuti, qualcun altro che dal cassonetto si recuperino abiti destinati direttamente ai poveri. 

Il nodo degli smaltimenti

Molti carichi di abiti usati partono verso Tunisia, India e Pakistan. Per l’Agenzia delle dogane si tratta di un modo per smaltire in maniera illecita i rifiuti tessili

In questo quadro non mancano i classici casi di smaltimento illecito dei rifiuti. Nel 2018 la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha smantellato un’organizzazione che interrava in Campania balle di indumenti, accessori e scarti dell’industria tessile. Il gruppo concordava con i produttori l’eliminazione a prezzo contenuto per poi guadagnare dalla vendita di quegli indumenti o dallo smaltimento illegale. Molti altri passano le frontiere come abiti usati, per poi essere invece trattati come rifiuti. "La destinazione privilegiata è la Tunisia", sostiene la commissione Ecomafie. Seguono Austria, Ungheria, Bulgaria e Slovacchia. "Rilevante è anche il traffico di abiti usati verso India e Pakistan – si legge in una nota dell’Agenzia delle dogane acquisita dalla commissione Ecomafie –. Peraltro, data anche la diffusione sempre maggiore della fast fashion, di qualità ridotta e quindi poco riutilizzabile, esiste il rischio che in realtà tali traffici celino non attività di riciclo ma un mezzo per aggirare in maniera illegittima gli obblighi di legge sullo smaltimento dei rifiuti tessili non recuperabili".

Rifiuti in Tunisia, la commissione Ecomafie accusa la Regione Campania

Le prospettive del settore

“Entro il 2030 i tessuti dovrebbero essere di lunga durata e riutilizzabili, fatti con fibre riciclate e senza sostanze pericolose”Virginijus Sinkevicius - commissario europeo per l'ambiente

Obblighi di raccolta nelle città, ecotasse e un cambio di mentalità a tutti i livelli: il settore è in evoluzione. "Dal 1° gennaio 2022 i comuni sono obbligati alla raccolta di indumenti e prodotti tessili usati – spiega Fluttero –. Tutto ciò che era stato fatto prima era spontaneo, perché alla fine della filiera c’era un compratore". Fluttero spera nell’introduzione della responsabilità estesa del produttore, per la quale le aziende che immettono in commercio i prodotti potranno dare vita a consorzi sul modello di quelli che trattano pneumatici, apparecchiature elettriche ed elettroniche. 

Lo scorso 30 marzo, presentando iniziative a sostegno dell’economia circolare per "rendere fuori moda la moda rapida", la commissione europea ha spiegato che "l’obiettivo principale sarà creare un’economia per la raccolta, la cernita, il riutilizzo, la preparazione ai fini del riutilizzo e il riciclaggio, nonché predisporre incentivi per i produttori e le marche affinché garantiscano che i loro prodotti siano concepiti nel rispetto dei principi di circolarità". "Entro il 2030 – ha annunciato il commissario all’ambiente Virginijus Sinkevi?ius – i tessuti immessi sul mercato europeo dovrebbero essere di lunga durata e riciclabili, realizzati in larga misura da fibre riciclate, privi di sostanza pericolose e prodotti nel rispetto dei diritti sociali e dell’ambiente".

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