Madagascar, veduta. Credit: Christian Wittmann/Wittmans tours
Madagascar, veduta. Credit: Christian Wittmann/Wittmans tours

Un capo non è per sempre

In Africa e Nuova Guinea esistono popoli che periodicamente si liberano dei loro leader: nessuno può stare al comando per un tempo illimitato

Francesco Remotti

Francesco RemottiProfessore emerito di Antropologia culturale dell'Università di Torino

Aggiornato il giorno 12 maggio 2023

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Nel numero precedente de lavialibera (n.19) ci siamo chiesti perché mai le società diffidano del potere: una diffidenza di fondo, persistente, talvolta silenziosa, talaltra manifesta e dirompente. Potremmo rispondere con quanto affermano diverse società dell’Africa equatoriale, secondo le quali il potere è bulemi, un qualcosa che pesa, opprime, schiaccia. Le stesse definiscono i loro capi con il termine mukama, "colui che spreme". È dunque una questione di libertà: senza un potere che ci sovrasta e ci opprime, vivremmo più liberamente. I leader a tempo ci fanno capire che esistono e sono esistite in passato società in cui il potere politico si presenta in maniera occasionale e intermittente.

Leader a tempo contro il potere

Succede, però, che con l’aumento di un surplus di risorse da gestire, con il passaggio da un’economia a ritorno immediato (ciò che si produce viene immediatamente consumato) a un’economia a ritorno dilazionato (accumulo di beni), le società non possano fare a meno di assistere all’emergere di un potere più consistente. E tuttavia, pure in queste condizioni, è facile osservare come le società periodicamente si liberino – persino in maniera alquanto brutale – dei loro capi. Un ruolo difficile. A questo scopo, non è il caso di tirare fuori le armi fisiche. C’è un’arma sociale, politica, morale: una dispendiosa generosità, a cui il capo è tenuto nell’ostentazione continua del suo potere.

Una politica della nonviolenza

Per esempio, tra gli Antemoro, un’etnia del sud- est del Madagascar, dove il capo è il più ricco, costui deve sottostare a un obbligo inderogabile: dilapidare le sue ricchezze con prestazioni di varia natura e soprattutto in occasione di feste collettive (matrimoni, funerali, riti di circoncisione). "Al termine di qualche mese, o al massimo di qualche anno – scriveva Jean Poirier negli anni Sessanta del ‘900 – il capo è completamente rovinato; divenuto incapace di fare le offerte tradizionali e non accettando di perdere la faccia, preferisce ritirarsi di propria iniziativa: così se ne va a vivere nella foresta, lontano dal gruppo". Gli succede in tal modo un altro capo, che andrà incontro al medesimo destino. Questo stesso meccanismodi conclusione del potere, in virtù della generosità a cui il capo è obbligato, è reperibile tra gli Anuak del Sudan, una popolazione nilotica di coltivatori e allevatori, dove il capo perde la carica quando non ha più nulla da distribuire al suo popolo. 

Questo meccanismo di conclusione del potere, è reperibile tra gli Anuak del Sudan, dove il capo perde la carica quando non ha più nulla da distribuire al suo popolo

Gli etnologi inglese Godfrey Lienhardt e Edward Evans-Pritchard avevano messo in luce la spietatezza con cui gli Anuak trattavano i loro antichi benefattori. Quando un capo rimane privo di mezzi con cui mantenere la sua corte, in una fazione del villaggio scatta un’insurrezione: una vera e propria ribellione con cui il capo subisce l’ostracismo. Egli dovrà andarsene: potrà ritirarsi in un villaggio a parte, quello dei parenti materni, dove si ridurrà a coltivare modestamente il suo orto.
È chiaro che sia nel caso degli Antemoro, sia nel caso degli Anuak, la miseria in cui finiscono i capi non è dovuta alla scarsa avvedutezza nel gestire i loro patrimoni, ed è altrettanto chiaro che per la gente non è questione di accaparrarsi beni: se così fosse, converrebbe a entrambi trovare un giusto equilibrio tra drenaggio e accumulo di beni da parte del capo e calcolata ridistribuzione a favore della gente.

Povertà, serve un cambio di passo sulla legge di bilancio

Gli Anuak sono chiari su questo punto: essi ritengono che a nessuno debba essere consentito di esercitare troppo a lungo la carica di capo; soltanto in casi straordinari, ovvero in assenza di altri pretendenti, un capo dotato di grande talento e ricchezza potrà conservare il potere per alcuni anni. La questione è dunque squisitamente politica, anche se questo meccanismo ottiene pure un effetto economico: quello di provvedere a un livellamento periodico degli individui che tendono ad emergere per accumulo di beni materiali. Questi beni vanno dilapidati in feste e ricorrenze rituali, in azioni dunque tipicamente sociali, come se la società volesse rivendicare la propria autonomia e i propri valori di eguaglianza contro quelle dimensioni – il potere e la ricchezza – che tendono a comprimere e a distorcere la sua regolare funzionalità in termini di scambi e di condivisione.

Culmine e discesa del capo 

Esattamente la stessa ferrea logica di fine abbreviata del potere è reperibile nei sistemi politici caratterizzati dalla figura del big man "il grande uomo", tanto diffusi in Nuova Guinea e così bene illustrati nel volume di Marino Niola La parabola del potere: il big man della Melanesia (1981). Anche qui, non si tratta di un semplice declino: la parabola discendente ha inizio proprio al culmine del potere e la discesa si conclude non già con un indebolimento, ma con una vera e propria fine rovinosa. Il meccanismo che produce lo svuotamento del potere è pure qui dovuto all’obbligo della generosità, del dispendio e dello sperpero nelle festività collettive: una così ampia distribuzione di risorse prevarica su ogni possibile riaccumulo. La fine del potere del capo è scritta irrimediabilmente nella stessa struttura a parabola che lo contraddistingue.

E, in alcuni casi, la fine non è soltanto economica, politica e sociale: tra i Kapauku della Nuova Guinea occidentale, il big man veniva ucciso nel momento del massimo prestigio. "Tu non devi essere il solo ricco, dovremmo essere tutti uguali; perciò sii uguale a noi": erano le parole che accompagnavano il gesto con cui una società di orticoltori e allevatori di maiali poneva fine drasticamente a un potere emergente. Ogni big man iniziava la sua avventura ben consapevole dell’inesorabilità della parabola con cui si sarebbe miseramente conclusa. In sintesi, potremmo dire che in tutti questi casi – africani e melanesiani – la società ingaggia una sorta di braccio di ferro con una forma di potere incipiente. Ma anche quando in altre circostanze storiche, economiche e sociali il potere avrà assunto forme più consolidate, la società non cesserà di fare sentire la sua voce.

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