Donne Mbuti
Donne Mbuti

Leader a tempo contro il potere

Alcune popolazioni africane non si fidano del potere, perciò chi le guida ha funzioni e durata limitate

Francesco Remotti

Francesco RemottiProfessore emerito di Antropologia culturale dell'Università di Torino

28 febbraio 2023

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Il potere non gode quasi mai di buona fama, se non da parte di chi lo esercita. Sono molte le società – quasi tutte! – che diffidano del potere, e non soltanto del potere acquisito con la forza, ma anche del potere più normale e legittimo, socialmente e giuridicamente riconosciuto.
Perché questa diffidenza di fondo? Il potere – tanto più se equilibrato – non è forse utile per dirigere in modo efficace una società, per organizzarla in modo tale da affrontare e, se possibile, risolvere i problemi che le si pongono innanzi? Portiamo un esempio minimo: i pigmei BaMbuti della foresta dell’Ituri (Repubblica democratica del Congo) – studiati a partire dagli anni ‘50 del Novecento da Colin Turnbull – si affidano a un leader, allorché intraprendono una battuta di caccia; è lui che guida e coordina il gruppo dei cacciatori. Ma, finita la battuta di caccia, questa figura di “capo” rientra, per così dire, nei ranghi: i BaMbuti non sopportano che un cacciatore provetto si trasformi in un capo a tempo pieno. Le loro minuscole società (bande di poche decine di membri) nella vita ordinaria fanno a meno di capi da rispettare e a cui ubbidire, e non vedono affatto di buon occhio che qualcuno ambisca a dirigere o condizionare le azioni degli altri. I problemi si affrontano insieme, discutendo insieme (donne comprese) attorno al fuoco, nel cuore della foresta, nel buio della notte. Se poi nel gruppo emergono tensioni interpersonali che impediscono accordi, la soluzione è presto trovata: non ci si rivolge a un capo, a un giudice che non esiste, ma qualcuno tra le persone in lite prende armi e bagagli e – con la sua eventuale famigliola – se ne va, nel senso che si aggrega a un altro gruppo. 

Una politica della nonviolenza

La prosperità di tutti è buon potere

A pensarci bene, è il carattere “liquido” di queste società a renderle così profondamente democratiche, così esenti e refrattarie rispetto a un potere che si elevi appena al di sopra della comunicazione e degli scambi sociali. I boscimani !Kung del deserto del Kalahari (Africa australe), studiati a partire dagli anni ‘50 e ‘60 dai coniugi Marshall (Lorna e Lawrence, a cui si aggiunse la figlia Elizabeth) e da Richard B. Lee, conoscono una figura di capo banda, la cui funzione è quella di coordinare le attività del gruppo per quanto riguarda l’accesso alle risorse alimentari e all’acqua. Come si può intuire, la situazione è diversa rispetto ai pigmei BaMbuti: un conto è vivere nella foresta equatoriale, che dispensa acqua e risorse sia vegetali sia animali in abbondanza, e un altro conto è sopravvivere in un deserto. Qui il capo si assume la responsabilità di conservare e mettere a frutto – a favore dell’intero gruppo – un sapere specializzato di ordine ecologico ed economico. Chi diventa leader sa benissimo che il suo potere è di continuo sottoposto a verifiche fattuali: la sua autorevolezza non dipende da un’eredità di funzioni trasmesse per discendenza (essendo figlio di un capo, per esempio), e tanto meno dall’uso della forza fisica e di pressioni psicologiche, ma dalla dimostrazione di saggezza e abilità. La verifica della legittimità del potere di un capo – come aveva scritto Elizabeth Marshall Thomas nel suo The Harmless People del 1959 a proposito del capo Toma nell’area Nyae Nyae – consiste nel fatto che «la gente viveva nella prosperità sotto di lui». Nessuno tra i !Kung «ama il privilegio» e il capo «lo evitava più di ogni altro: egli non possedeva quasi nulla e regalava tutto quello che arrivava nelle sue mani». L’antropologa concludeva il ritratto di Toma, sottolineando la sua capacità di fine «diplomatico»: infatti «in cambio della povertà che si era autoimposto, meritò il rispetto e l’obbedienza di tutta la sua gente».

Tra i boscimani del deserto del Kalahari, la carica del capono dipende da un'eredità o dalla forza, ma dalla saggezza e dall'abilità

Il dominio come pericolo in sé

La diffidenza delle società verso il potere – persino in contesti tanto ridotti come quelli dei pigmei della foresta e dei boscimani del deserto – nasce dunque dalla consapevolezza che il potere è in grado di staccarsi dal tessuto sociale, di autonomizzarsi, di divenire altro rispetto alla società e ai suoi bisogni, di costituirsi come centro di attrazione, dirottando quindi verso di sé le risorse disponibili. Ma non esiste un potere senza società, un potere che assorba del tutto e, per così dire, annulli in sé una società, come se esistesse soltanto il potere e il suo sistema. 

La società della performance soffre e non sa più sognare 

Tra i BaNande del Nord Kivu (Repubblica democratica del Congo) chi scrive ha potuto studiare, insieme al sistema di potere centrato nella figura del mwami (un capo permanente), una strana figura di anti-capo: il mughula. Costui e la sua famiglia vivono in luoghi appartati, fuori mano. Se al mwami succede di transitare dalle parti del mughula, sarà lui, il capo, a fare pervenire al suo antagonista, al suo “nemico”, un tributo di capre. Mwami e mughula sono destinati a non incontrarsi mai. Ma quando il capo avrà cessato di vivere, il mughula ha il compito di strappare dal cadavere del capo la sua mascella inferiore: solo in quel momento si potrà dichiarare che il mwami è morto. Il suo potere è terminato. 
Come si vede, la morte del mwami non è una morte naturale, biologica: è invece una morte sociale, procurata da chi rappresenta un angolo estremo e nascosto della società, un angolo di società che non è assorbito e tanto meno asservito al potere, a cui anzi il mwami (l’espressione massima del potere) deve periodicamente manifestare il suo tributo, la sua dipendenza. In effetti, al mughula il capo deve la sua nascita: non quella biologica, ma la nascita rituale al potere. Il mughula è tra i ritualisti che fanno “nascere” il mwami, così come è colui che, con lo strappo della mascella pone fine al suo potere. Nel rapporto di tensione tra il potere e la società, è colui che rivendica la persistenza della società al di qua del potere: un potere che dalla società dipende sia quando nasce, sia quando muore. 


Ps: Il lettore deve essere però avvertito che con la colonizzazione e successiva statalizzazione, il potere tra i BaNande è divenuto permanente e la società – pur continuando a diffidare del potere – ha perduto la sua capacità di segnarne periodicamente l’inizio e la fine.

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