28 febbraio 2023
Nell’immaginario collettivo è purtroppo radicata l’idea che la lotta al crimine sia una questione di guardie e ladri, di buoni e malvagi che si fronteggiano su un campo di battaglia precluso al cittadino comune. In quest’ottica, non stupisce come la recente cattura di un noto boss mafioso sia stata motivo di esultanza per tantissimi italiani onesti. Quest’esultanza ha assunto però, per certi versi, toni troppo enfatici.
L’idea che l’arresto del capomafia basti a segnare un punto decisivo nella lotta per la verità e la giustizia è una semplificazione, perché la forza delle mafie sta soprattutto nella debolezza del contesto entro cui si trovano a operare. Una debolezza che oggi misuriamo più che mai in termini sociali, culturali e morali.
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Se le mafie sono state raccontate come un contro-potere, alternativo a quello esercitato dallo Stato, oggi è spesso anche chi detiene un potere legittimo – politico o economico o entrambi – che si comporta secondo logiche, se non mafiose in senso stretto, mafioseggianti. Logiche che mettono i profitti di pochi davanti ai diritti di tutti, che sfruttano la menzogna in funzione del consenso, che uccidono senza armi, ma attraverso negligenze, inadempienze, risparmi fatti sulla pelle delle persone.
Pensiamo alle tragedie causate dalla mancata prevenzione dei rischi idrogeologici, dalle speculazioni edilizie o dalla scarsa manutenzione delle opere pubbliche. Pensiamo al genocidio delle persone migranti, sacrificate sull’altare della propaganda, e poi sfruttate proprio a causa dell’invisibilità a cui certe leggi le costringono. Pensiamo agli sprechi e alla mala gestione dei fondi pubblici: un crimine in sé, che oltretutto è stato invocato come pretesto per tagli continui alle spese di welfare, punendo così i cittadini, a partire dai più fragili, anziché i potenti autori di quelle malversazioni.
Il recente arresto di un noto boss non basta. La forza delle mafie sta nella debolezza del contesto in cui operano
Gli esempi di come le lobby di potere tradiscono gli ideali di giustizia, talvolta senza neppure il bisogno di violare le leggi, sono numerosi. Lo schema però non varia: chi occupa un posto di potere, ai vertici di un’amministrazione pubblica o di una grande azienda, gode di una posizione di privilegio. Sa di avere molte possibilità per beneficiare sé stesso e la propria cerchia, ma spesso ignora o “dimentica” di avere altrettante se non maggiori responsabilità verso la società tutta.
Dalla semplice disinvoltura al reato il passo è spesso breve. Così breve che chi lo compie neppure se ne accorge, oppure abilmente lo dissimula, o ancora lo rivendica con sconcertante spregiudicatezza
Dalla semplice disinvoltura al reato il passo è spesso breve. Così breve che chi lo compie neppure se ne accorge, oppure abilmente lo dissimula, o ancora lo rivendica con sconcertante spregiudicatezza. Senza contare quei potenti che, una volta conquistato il potere, hanno fatto approvare da parlamenti asserviti leggi ad personam, contrarie al bene comune e rivolte soltanto a perpetuare la propria supremazia economica e politica.
E i cittadini? Assistono impotenti. Perché appunto potere non ne hanno. O pensano di non averne. Così il furto di bene comune continua sempre più sfacciato, e maggiori ricchezze dirotta nelle tasche delle élite, meno ne restano per i servizi, la sanità, la scuola, l’ambiente, i salari o la sicurezza sul lavoro.
Ciò che preoccupa è il degradarsi, nella coscienza civile, di quegli anticorpi, di quelle sentinelle capaci d’intercettare il male e denunciarlo in quanto tale. La corruzione è sempre esistita, ma un tempo indignava la gente, era fonte di scandalo, avveniva sottotraccia. Oggi scopriamo che i potenti si fanno trovare come se nulla fosse con intere valigie di denaro contante in casa. E il cliché dell’italiano furbacchione, capace d’inventarsi fantasiose ma in fondo innocenti truffe per sopravvivere, si è trasformato nell’ammirazione verso chi frega gli altri in maniera quasi ostentata.
Scriveva Alvaro, “per una società la disperazione più grave è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”
Ecco la debolezza morale di cui si fanno forti le mafie. Ecco come l’inspiegabile di un territorio che per trent’anni “non nota” la presenza di un latitante, improvvisamente si spiega. Ecco il contesto – titolo fulminante di un bel libro di Leonardo Sciascia – che da semplice sfondo diventa protagonista del crimine, con le sue complicità, le sue opacità, le sue “disattenzioni”.
Esiste una violenza culturale che è la più difficile da combattere, perché penetra in profondità nel tessuto sociale e nei modi d’essere delle persone. È l’omertà, la tendenza a depenalizzare i reati nella propria coscienza e a praticare una legalità compatibile, fondata sulla convenienza. Così qualsiasi comportamento criminogeno – salvo i piccoli reati di strada o i gravi delitti di sangue – tende a essere normalizzato agli occhi della gente: se non posso combatterlo, tanto vale che mi ci adegui.
Il senso d’impotenza delle vittime verso gli abusi del potere, e il senso d’impunità dei potenti nei confronti della comunità, sono due facce della stessa medaglia, due vasi comunicanti
Il senso d’impotenza delle vittime verso gli abusi del potere, e il senso d’impunità dei potenti nei confronti della comunità, sono due facce della stessa medaglia, due vasi comunicanti. Gioiamo allora come è giusto per l’arresto di un criminale, ma usciamo finalmente dall’illusione che il crimine sia soltanto quella roba lì. E diventiamo consapevoli che ciascuno di noi ha il potere di cambiare le cose: basterebbe coltivare un minimo più di consapevolezza e disgusto dei soprusi, un pochino meno di ammirazione per certi stili di vita scaltri e disinvolti. Perché, per dirla con le parole del grande scrittore calabrese Corrado Alvaro, "la disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile".
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