L'attore e regista Michele Riondino dietro la cinepresa durante le riprese del film "Palazzina Laf" (Foto di Maurizio Greco)
L'attore e regista Michele Riondino dietro la cinepresa durante le riprese del film "Palazzina Laf" (Foto di Maurizio Greco)

"Palazzina Laf" di Michele Riondino, un film scomodo ma necessario

In "Palazzina Laf", Michele Riondino esordisce come regista con una storia molto sentita su Taranto, l'acciaieria Ilva e le condizioni dei lavoratori e del territorio

Andrea Zummo

Andrea ZummoReferente provinciale di Libera Torino

7 dicembre 2023

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Taranto, 1997. Caterino Lamanna (Michele Riondino) lavora alla famigerata Ilva. È un operaio siderurgico, abita in una casa fatiscente e ha una fidanzata albanese di nome Anna. Un giorno, Giancarlo Basile (Elio Germano), giovane dirigente dell’azienda, lo convince a diventare il suo “orecchio”, tra gli operai: Caterino dovrà riferirgli quali sono i (mal)umori, anche considerato che gli incidenti sul lavoro, alcuni mortali, continuano ad avvenire.

Caterino si lascia convincere con poco, basta una vecchia auto usata e la prospettiva di fare una piccola carriera. Così ottiene successivamente di essere spostato di reparto e mandato nella cosiddetta Palazzina Laf (che sta per laminatoio a freddo): Caterino è convinto di aver fatto un colpaccio, perché pensa che quello sia un luogo per privilegiati, dove si lavora poco e non ci si spacca la schiena.

Ben presto scoprirà una realtà ben diversa: si tratta di un reparto di confinamento, dove gli operai più “scomodi” sono stati relegati e ai quali viene proposta, di quando in quando, una mansione alternativa, per la quale però non hanno competenza. Caterino scoprirà una dimensione parallela, fatta di rabbia, frustrazione, alienante quotidianità che si ripete identica. Intanto serpeggiano idee di protesta, contatti con un avvocato, impotenza dei delegati sindacali nella lotta con la dirigenza. Questa è la storia di Palazzina Laf, primo film realizzato da Michele Riondino. 

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Il risultato è ottimo, in primis per la sua interpretazione e per il personaggio di Caterino: un uomo povero, in primis di strumenti culturali, che non capisce la manipolazione e le angherie

L'attore tarantino esordisce come regista con un film scomodo, ma evidentemente molto sentito, essendo egli stesso nato a Taranto nel 1979. La vicenda è tratta dal libro Fumo sulla città di Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista scomparso nel 2017, a cui la pellicola è dedicata. Una scommessa rischiosa, quella del regista e interprete principale: una storia sulla fabbrica, nello specifico su una delle pagine più vigliacche di mobbing degli ultimi trent’anni, sconosciuta ai più. Eppure il risultato è ottimo, in primis per la sua interpretazione e per il personaggio di Caterino: un uomo povero, in primis di strumenti culturali, che non capisce la manipolazione che sta subendo e le angherie a cui sono sottoposti i colleghi.

C’è una dimensione di grottesco, a tratti di onirico, che rende bene (anche se si può solo immaginare) l’infernale contesto della Palazzina Laf: non è un caso che tanti abbiamo citato Elio Petri e il suo La classe operaia va in paradiso. A far da contorno, il sempre bravissimo Elio Germano (qui davvero di luciferina ambiguità), ma vanno citati anche Greta Scarano e Paolo Pierbon, oltre alle musiche di Teho Teardo e la canzone finale di Diodato.

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Se ne esce indignati e disturbati, ma Palazzina Laf era un film necessario da realizzare. Per riflettere ancora una volta, purtroppo nell’Italia del 2023, sulla condizione operaia, sui maltrattamenti e le discriminazioni sul posto di lavoro, ma più in generale su un sistema produttivo che continua a trattare le persone come numeri e oggetti. A volte, ed è stato evidente nel caso dell’Ilva di Taranto, anche ignorando tutte le conseguenze (fin mortali) della mancata sicurezza in fabbrica e dei risvolti sulla salute di un intero territorio martoriato e mortifero.  

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