19 dicembre 2023
Sono partiti in 86, sono annegati in 61. È il bilancio dell’ultima strage in mare, avvenuta la scorsa settimana al largo della Libia. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, sono almeno 2250 le persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo centrale quest'anno. “Dopo dieci anni non è cambiato nulla”, constata sconsolato Vito Fiorino, protagonista per caso – o “per destino”, come dice lui – del naufragio del 3 ottobre 2013, uno dei più gravi mai registrati. Quella notte, un peschereccio partito dalla Libia con circa 500 uomini, donne e bambini a bordo, soprattutto eritrei, prese fuoco e si capovolse a pochi chilometri dalle coste di Lampedusa. Furono 366 i corpi senza vita recuperati, una ventina i dispersi e 155 i naufraghi salvati. 47 trovarono rifugio nella barca di Vito: “Era stata battezzata Nuova speranza”, racconta a lavialibera. “Quando l’ho comprata non mi diceva niente. Il 3 ottobre, poi, quel nome ha assunto tutto un altro senso”.
3 ottobre 2013: dare un nome a chi muore in mare, dieci anni dopo
Vito, oggi 74 anni, è nato a Bari. Quando aveva 11 mesi, la madre l’ha portato con sè a Milano, dove già viveva il padre. “Allora non si affittava ai ‘terroni’, erano loro che ‘rubavano il lavoro’ e ‘portavano insicurezza’. Abitavamo nello scantinato in cui mio padre aveva aperto una falegnameria”, ricorda. Anche Vito ha lavorato nella bottega, prima di mettersi in proprio e girare per il mondo. Nell’estate del 2000, poi, l’incontro con Lampedusa: “Non so ancora spiegare il perché, fatto sta che mi sono subito innamorato”. Così, in pochi mesi ha deciso di chiudere l’azienda e, dopo essersi assicurato che tutti i dipendenti avessero trovato un’altra occupazione, si è trasferito sull’isola, dedicandosi alla pesca e alle uscite in barca con gli amici.
"Ci siamo trovati di fronte a un anfiteatro di persone che chiedevano aiuto. Non ci abbiamo pensato due volte"
Come quella del 3 ottobre 2013: “Eravamo ormeggiati nella baia della Tabaccara, io e sette amici. Dopo aver fatto un bagno e mangiato qualcosa, abbiamo deciso di dormire in barca e fare una battuta di pesca la mattina”, ricorda Vito, con la voce tremante. “Alle prime luci dell’alba, vengo svegliato dal rombo del motore: un mio amico diceva di aver sentito delle grida d’aiuto. A me sembravano solo gabbiani, ma mi sono fidato. Arrivati sul luogo del naufragio, ci siamo trovati di fronte a un anfiteatro di persone, almeno duecento”. Vito e gli amici non ci pensano due volte: gettano il salvagente in acqua e iniziano a tendere le braccia verso quelle che si agitano tra le onde, tirando su quante più persone possibile: “Erano quasi tutti nudi, i corpi scivolosi per il gasolio”, dice Vito, che continuerà a pescare naufraghi fino a slogarsi la spalla. Ne salveranno 47, su un’imbarcazione che potrebbe ospitare al massimo nove persone.
No, politiche di soccorso e Ong non incentivano i migranti a partire
Vito ricorda di aver allertato la capitaneria di porto alle 6.25. Dice che la prima motovedetta è arrivata circa un’ora dopo, rifiutandosi però di caricare a bordo i naufraghi già salvati da lui e i suoi amici perché “il protocollo non consente il trasbordo”. Racconta poi di essere stato ricevuto, qualche giorno dopo il salvataggio, dall’allora comandante della Guardia costiera dell’isola, che gli avrebbe chiesto di dichiarare a verbale di aver chiamato la capitaneria alle 7.01. “Mi sono rifiutato, è una falsità”, ribadisce. Per aver denunciato pubblicamente l’accaduto, Fiorino ha ricevuto un avviso di garanzia per diffamazione. Sugli eventuali ritardi e mancanze delle autorità, comunque, non si è mai indagato. Tre anni fa sono invece stati condannati per omissione di soccorso il comandante e l’equipaggio di un peschereccio privato che, giunto in prossimità del luogo del naufragio, cambiò rotta e rientrò in porto senza allertare le autorità.
"Da quella notte non riesco più a uscire in acqua. Il mare è bello da guardare e basta"
Dopo quel 3 ottobre Vito Fiorino ha venduto la barca: “Non riesco più a uscire in acqua. Il mare è bello da guardare e basta”. Nei cinque anni successivi non ha mai avuto la forza di parlare pubblicamente di quella notte. Nel 2018, poi, l’associazione Gariwo l’ha nominato tra i "giusti" a cui intitola giardini in giro per l’Italia. “Da allora parlare della mia esperienza è diventata una missione”, dice. Lo fa soprattutto nelle scuole: “Solo quest’anno ho incontrato almeno 8mila studenti. Provo a seminare tanti piccoli semi”. Con l’aiuto dei migranti salvati, ha anche contribuito a dare un nome ai 366 corpi senza vita recuperati dal mare quella notte. Oggi sono incisi in un memoriale a pochi passi dal porto di Lampedusa, intitolato proprio “Nuova speranza”.
Con le persone che ha salvato, Vito ha subito voluto instaurare un rapporto personale: “Nelle settimane successive al naufragio ci venivano a trovare spesso. Tutti però dicevano di voler uscire dall’Italia. E così è stato: sono scappati dall’hotspot senza lasciare le impronte e sono arrivati nel Nord Europa. Ma ci sentiamo regolarmente, alcuni mi chiamano papà e tornano a Lampedusa ogni anno”. Dall’incontro con i giornalisti Davide Demichelis e Alessandro Rocca, poi, è sorta l’idea di un viaggio verso quei paesi dove i “figli adottivi” di Vito hanno costruito una nuova vita. C’è Alex, che lavora come parrucchiere in uno shop eritreo ad Arnhem, in Olanda, e Solomon, che fa l’autista di bus in Svezia, si è sposato e ha due figli. E poi Amanuel, Aregai, Abraham, Kobob, il più giovane dei salvati, al tempo tredicenne, e Fanus, una delle poche donne. Ne è nato il documentario “A nord di Lampedusa”, realizzato con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo.
“Volevamo provare a cambiare la narrazione, interessarci alle storie dopo lo sbarco, oltre l’ultim’ora”, dice a lavialibera Alessandro Rocca. “Quello che emerge dalle storie che mostriamo è che se diamo possibilità e prospettive a chi scappa da guerre, carestie o semplicemente assenza di lavoro, queste persone riescono a ricostruirsi una vita e integrarsi”. Invece, constata Vito con amarezza, in Italia si insiste sulla strada delle frontiere chiuse e della criminalizzazione di chi cerca di salvare vite in mare: “Manca il rispetto dell’umanità, da destra a sinistra. Prenderei tutti con me sulla barca e li porterei al largo per vedere cosa succede, cosa continua a succedere a dieci anni da quella strage. Le cose bisogna toccarle con mano”.
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