22 dicembre 2023
Non voleva “alterare i rapporti di equilibrio con la polizia penitenziaria” Domenico Minervini, l’ex direttore del carcere Lorusso-Cutugno di Torino. Ecco perché, anche se era a conoscenza di una situazione "grave e critica" in uno dei padiglioni dell'istituto penitenziario, "ha di fatto preferito non interessare l'autorità giudiziaria, omettendo di denunciare quanto via via a sua conoscenza". Una scelta "consapevole" e dettata dal "timore" di dover dare conto di un'azione "dovuta ma impopolare", cioè denunciare.
È quanto emerge dalle motivazioni, depositate oggi dalla giudice Ersilia Palmieri, della sentenza che lo scorso settembre ha condannato Minervini a pagare 300 euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e a un risarcimento per ciascuna parte civile, per non aver denunciato i presunti abusi commessi dagli agenti nei confronti dei detenuti, che gli erano stati segnalati più volte, e da più fonti. Il massimo previsto per questo reato è poco più di 500 euro, ma la giudice ha applicato le attenuanti previste, valutando positivamente la "cooperazione" di Minervini durante il processo.
"Si tratta della prima condanna nei confronti di un soggetto apicale dell'istituzione penitenziaria. Mette in risalto una catena di responsabilità che raggiunge i vertici, senza spezzarsi. Speriamo sia anche il segno di un cambiamento all'interno della cultura penitenziaria" Benedetta Perego - avvocata team Antigone
Anche se è caduta l'accusa di aver aiutato gli agenti a eludere le indagini, avanzata dal pubblico ministero, è una pronuncia importante, sottolinea l'avvocata Benedetta Perego, del team contenzioso dell'associazione in difesa dei diritti dei detenuti Antigone che si è costituita parte civile insieme al garante dei detenuti nazionale, regionale e cittadino: "Si tratta della prima condanna nei confronti di un soggetto apicale dell'istituzione penitenziaria – dice –. Mette in risalto una catena di responsabilità che raggiunge i vertici, senza spezzarsi. Speriamo sia anche il segno di un cambiamento all'interno della cultura penitenziaria in tutta Italia e in particolare in Piemonte (al momento, nella regione si contano quattro inchieste per violenze che interessano i penitenziari di Torino, Ivrea, Cuneo e Biella e coinvolgono più di 100 agenti, ndr) ".
L'indagine sul carcere Lorusso-Cutugno riguarda oltre 20 poliziotti penitenziari, accusati di maltrattamenti commessi nell'arco di tre anni: dal 2017 al 2019. Una delle ipotesi di reato è la tortura. L’inchiesta è partita dopo le segnalazioni della garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo, venuta a conoscenza di ripetuti episodi di violenza e dell’uso improprio di alcune celle dove i detenuti che mostravano segni di scompenso psichico sarebbero stati isolati, quando invece il regolamento penitenziario prevede il trasferimento in una sezione ad hoc. Gli abusi avrebbero coinvolto soprattutto gli autori di reati sessuali detenuti nel padiglione C.
Presunte torture nel carcere di Torino: "Impossibile che i vertici non sapessero"
La maggior parte degli agenti imputati ha scelto il processo ordinario, ancora in corso, mentre a optare per l'abbreviato sono stati in tre: oltre Minervini, l'ex comandante degli agenti di polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza, e l’agente Alessandro Apostolico.
Il pubblico ministero Francesco Pelosi aveva domandato un anno di carcere per Minervini e un anno e due mesi per Alberotanza, entrambi accusati di omessa denuncia e favoreggiamento. Aveva poi chiesto quattro anni per Apostolico, accusato di avere provocato "acute sofferenze fisiche" a un detenuto, con "violenze gravi" e "crudeltà", e di averlo poi minacciato per assicurarsi l'impunità.
Alberotanza è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Ad Apostolico è stata, invece, comminata una pena di 9 mesi: per la giudice non si sarebbe trattato di tortura, ma di abuso di autorità. "Non emerge nel caso di specie, in maniera univoca, che dietro il comportamento arbitrario dell'agente vi sia stata una forma di sadica soddisfazione per la propria capacità di generare sofferenza quanto piuttosto l'evidente incapacità di valutare i limiti della propria funzione, in rapporto non solo al caso specifico ma anche alla delicatezza dell'incarico svolto, verosimilmente anche in ragione di una scarsa preparazione a trattare con particolari categorie di detenuti", si legge nelle motivazioni.
"Questa sentenza, se da un lato dà atto dell'omertà che regna all'interno del carcere, dall'altro ridimensiona le responsabilità dall'agente Apostolico sulla base di elementi non idonei a giustificare la riqualificazione del reato di tortura in abuso di autorità" Francesca Fornelli - avvocata del garante dei detenuti di Torino
“Condivido solo in parte le conclusioni a cui è giunta la giudice dell’udienza preliminare", aggiunge Francesca Fornelli, avvocata della garante dei diritti delle persone private della libertà personale della città di Torino. "Questa sentenza, se da un lato dà atto dell'omertà che regna all'interno del carcere, dall'altro ridimensiona le responsabilità dall'agente Apostolico sulla base di elementi non idonei a giustificare la riqualificazione del reato di tortura in abuso di autorità”.
Rimane la condanna per omessa denuncia di Domenico Minervini. A inizio processo, la sua difesa ha puntato sul fatto che l'ex direttore non fosse del tutto consapevole di quanto accadesse all'interno del carcere, giudicando le tante segnalazioni ricevute dalla garante Gallo "troppo generiche".
Ma per la giudice “per la qualità e la quantità dei casi segnalati, per la fonte da cui promanavano, per la persistenza nel tempo di criticità anomale legate ad atteggiamenti prevaricatori e aggressivi tenuti nei confronti dei detenuti, per la specifica casistica (numero di sinistri accidentali nel padiglione C), per l'inefficacia di altri strumenti messi in campo (quali le procedure di raffreddamento dei conflitti), non sembra potesse realmente residuare alcuno spazio di discrezionalità”.
Occorreva quindi “chiedere all'autorità preposta gli accertamenti del caso e non pretendere che un soggetto, quale la garante, potesse attivarsi per ricercare informazioni più dettagliate, non avendo lei peraltro accesso a tutta una serie di registri interni”.
“È quindi possibile – si legge ancora nelle motivazioni – ritenere provato che effettivamente, quantomeno a partire dal 2018, se non prima, Minervini fosse a conoscenza di una situazione critica e grave che andava attenzionata e monitorata, in particolare con riferimento al padiglione C. Le segnalazioni via via più gravi, provenienti dalla garante ma, come visto, anche da altri soggetti qualificati con il quale il direttore si rapportava e che non avevano interessi di parte, di fatto sono state sottovalutate e non hanno indotto alcun mutamento nell'atteggiamento generale tenuto dal Minervini che, sia di fronte alla notizia di criticità rilevanti nel blocco C ovvero inerenti l'utilizzo abusivo di alcune celle sia di fronte alla notizia di vere e proprie vessazioni e violenze ai danni dei detenuti, ha di fatto preferito non interessare l'autorità giudiziaria, omettendo di denunciare quanto via via a sua conoscenza”.
La scelta di Minervini, conclude la giudice, è stata consapevole e "dettata dal timore di dover dar conto di una diversa azione, dovuta, ma impopolare”.
Da notare che, scrive Palmieri, solo a un certo punto, “a indagini iniziate, e comunque quando ormai non poteva fare diversamente, Minervini ha iniziato a tenere un comportamento diverso”. E a delegare gli accertamenti necessari per poi trasmetterli alla procura della repubblica.
“Se fossi stato a conoscenza di episodi simili avrei preso provvedimenti. Non ho mai insabbiato nulla, come dimostra tutta la mia carriera”. Così Minervini aveva deposto come testimone della difesa nel processo contro degli agenti della polizia penitenziaria accusati di gravi episodi di violenza contro alcuni detenuti del carcere di Asti avvenuti nel 2004, all’epoca in cui l’istituto era sotto la sua responsabilità. Non c’era alcuna imputazione a suo carico, ma il suo nome era stato fatto da alcuni testimoni d’accusa, un agente e un’operatrice che sostenevano di aver riferito a lui su alcuni episodi oggetto del processo, e Minervini aveva approfittato della testimonianza per smentire.
Il processo si è concluso nel 2012 con il proscioglimento per prescrizione degli agenti penitenziari imputati, ma nel 2017 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto che due detenuti furono vittime di torture e di trattamenti inumani e degradanti condannando lo Stato italiano a risarcire i due ex reclusi con 80 mila euro ciascuno.
Da notare che, scrive Palmieri, solo a un certo punto, “a indagini iniziate, e comunque quando ormai non poteva fare diversamente, Minervini ha iniziato a tenere un comportamento diverso”
Tornando alle presunte torture al Lorusso-Cutugno, il 4 luglio si è svolta la prima udienza del rito ordinario, fissata a due anni dal rinvio a giudizio e a un anno dalla richiesta delle parti civili di anticiparne la data per la possibile prescrizione dei reati, respinta dall'allora presidente della terza sezione penale del tribunale di Torino, Marcello Pisanu. Un ritardo già denunciato da lavialibera e reso ancora più significativo considerato che, dopo un breve periodo di sospensione, alcuni agenti sono rientrati in servizio venendo persino a contatto con le presunte vittime.
"Siamo dispiaciuti", aveva rimarcato Fornelli a lavialibera. "Una data così lontana nel tempo rischia di pregiudicare l’accertamento stesso delle responsabilità dei soggetti coinvolti, visto che alcuni episodi si sono verificati nel 2017”.
Quasi tutti gli imputati in aula non hanno autorizzato le telecamere Rai a filmarli. Erano molti gli agenti presenti, mentre si notava l'assenza dell'ispettore Maurizio Gebbia: l'ex coordinatore della sezione dove si sarebbero verificati gli episodi e a cui – secondo la ricostruzione dell'accusa – farebbe capo la regia delle violenze.
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