B. Ackermann/Unsplash
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La febbre del cibo, luci e ombre della ristorazione bolognese

Il mondo della ristorazione è profondamente cambiato dopo la pandemia di covid. A Bologna, come in altre città, alcune realtà hanno acquisito molti piccoli locali storici. Ma in un momento di crescita del consumo, un settore così ampio e in crisi può richiamare ben altri e più inquietanti appetiti

Sofia Nardacchione

Sofia NardacchioneGiornalista freelance

Andrea Giagnorio

Andrea GiagnorioReferente Libera Bologna

14 febbraio 2024

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"È arrivato il momento di andare via dal centro, ti dovresti mettere a fare concorrenza a loro". E non è possibile. Siamo a Bologna, a parlare è una ristoratrice che da tempo possiede un locale nel centro storico della città. “Loro” sono quegli imprenditori che negli ultimi anni stanno acquisendo un ristorante dopo l’altro: marchi o cordate di società in continua e costante espansione. Nella città famosa per il cibo, il settore del food negli ultimi anni ha subito profonde trasformazioni: "Bologna non era così – afferma la donna – era una città di piccole botteghe e di piccoli ristoratori, di famiglie che tenevano in piedi il centro con le loro attività e si veniva a mangiare perché Bologna era “la grassa”, perché si mangiava in un certo modo. Così, invece, è la morte della ristorazione".

La pandemia di Covid-19 ha segnato uno spartiacque. Serrande abbassate, locali costretti a chiudere per sempre, lockdown che hanno messo in ginocchio l’intero settore: "I due anni del covid sono stati il colpo di grazia e hanno aperto la scia a tutti questi personaggi che stanno comprando tutto. Persone che anche in piena pandemia hanno avuto la forza di pagare con puntualità millimetrica, mentre tutti erano con l'acqua alla gola" continua la testimone, che come tutti gli altri citati nel pezzo, ci chiede di restare anonima.

C’è chi chiude e chi decolla

A Bologna, un marchio in particolare continua a crescere, da ben prima della pandemia, quello della società La Piazza del Gigante s.r.l., più noto come 051. Dal 2009 ha aperto un locale dietro l’altro: nove nel centro storico, altri tre in provincia. Osterie, tigellerie, enoteche: ristoranti perfetti per i turisti, tra taglieri, cibo tipico e vino. I bilanci parlano di 127 dipendenti nel 2021, cresciuti fino a 169 nel 2022. Un grande margine di crescita, con utili nel 2022 a 3 milioni di euro, e 1 milione e 200mila euro di tasse pagate. Dall’analisi dei bilanci si ricava una crescita di marginalità del 9 per cento in quattro anni. Sintomi di un’imprenditoria fertile, che non ha risentito della pandemia e che anzi ha continuato a crescere. 

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Durante la pandemia c’è chi ha fatto grandi investimenti, dando anche la possibilità ad altri ristoratori in difficoltà di cessare le attività senza andare in fallimento: "Durante e dopo il Covid la maggior parte dei locali che erano in difficoltà a causa delle chiusure li hanno presi le stesse persone che oramai hanno in mano il centro di Bologna. Hanno rilevato tantissime attività in difficoltà, danno la possibilità di respirare perché pagano l'attività molto bene e subito. Proposte che fai fatica a rifiutare perché difficilmente c’è un potere d'acquisto simile in giro". 

Un ristoratore bolognese, che ha chiesto di restare anonimo, racconta ai nostri microfoni la sua esperienza. Spostandosi dal centro, avrebbe voluto affittare un ristorante in periferia dalla società dello 051, decidendo alla fine di ritirarsi dall’affare: "La cosa che mi ha fatto spaventare di più è stata il fatto che queste persone, quando io mi sono tirato indietro dal progetto di apertura di un locale, hanno cercato di convincermi di procedere con la collaborazione, offrendo addirittura la possibilità di darmi del denaro e tutte le comodità del caso. Il tutto fatto in maniera molto molto pressante". 

Abbiamo provato a contattare la società Piazza del gigante Srl per porgli alcune domande, ma invano. Per tutta risposta l’ente ha invece inviato a Libera Bologna una diffida contro la pubblicazione della video inchiesta La febbre del cibo, le ombre della ristorazione bolognese, ritenendola lesiva della propria immagine nel racconto di fatti e aspetti destituiti di fondamento e lontani dalla effettiva realtà commerciale e professionale della società. Riteniamo che le informazioni su certi dinamiche e trasformazioni di mercato, il modus operandi e le conseguenze di un'imprenditoria rampante, su cui la società non ha voluto esprimersi, siano di interesse pubblico, perciò nel rispetto della normativa italiana le pubblichiamo per ciò che sono, ricordando che i fatti non riguardano illeciti e che non esiste alcuna indagine a carico della Piazza del gigante Srl.

Lasagne del boss

Quando si passa in due delle vie più centrali di Bologna, via Oberdan e via D’Azeglio, a pochi passi da piazza Maggiore, tra i tanti locali ce ne sono due che saltano particolarmente all’occhio. Il motivo, i nomi dei piatti: “Lasagna del boss”, “Panino del boss”, sono i nomi di alcune proposte da “L’Antico Salumiere”, nella cui insegna, come se non bastasse, si legge anche “Il boss del piacere”. Elementi di colore che stonano, contando anche la sentenza del 2018 in cui il Tribunale dell’Unione Europea aveva giudicato illegittimo il logo usato in Spagna “La mafia se sienta a la mesa” dal momento in cui si è ritenutio che l’utilizzo della mafia come strumento di marketing avrebbe un effetto manipolatorio sull’immagine della cucina italiana, qualificando positivamente un fenomeno criminale. I locali in questione sono gestiti da una società nella cui composizione societaria figura il nome di Antonio Chiodo, ex commercialista, da qualche anno diventato appassionato di ristorazione: ha cariche o partecipazioni in 17 società, la maggior parte proprio nel mondo della ristorazione. Com’è stata possibile una tale espansione, con così tanti ristoranti aperti e partecipazioni societarie? La risposta dell’ex commercialista è semplice: "Il segreto è quello di stare aperto 365 giorni all’anno e centralizzare alcune produzioni". Sui richiami al boss nel menù, invece, ride: "Lo hanno scelto i miei soci, siccome vogliamo riproporre questo format all’estero questo nome fa molto marketing italiano…". 

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Mentre marchi e cordate societarie si espandono, l'esperienza di altri piccoli ristoratori è diversa: "Negli ultimi tempi vedo fare investimenti da personaggi un po' particolari. Questi girano in Maserati, aprono locali uno dietro l'altro, io da imprenditore una domanda me la faccio. La ristorazione se la fai in un certo modo, la fai bene, ti fai il mazzo dalla mattina alla sera, come facciamo noi, fai una vita decorosa. Ma non si diventa ricchi con questo lavoro".

Un settore a rischio riciclaggio

Espansioni che non temono concorrenza, discutibili scelte di brand, modelli imprenditoriali che schiacciano i piccoli ristoratori sono solo alcune espressioni delle profonde trasformazioni in corso. Ma altri segnali e altre realtà, differenti dai casi citati e certamente più inquietanti, descrivono un altro aspetto dello sviluppo della ristorazione. Hanno a che fare con le vetrine perfette, i prezzi mai troppo alti, i dipendenti ben pagati, gli affitti regolari, le forniture senza un intoppo: nessun problema tra quelli che normalmente attanagliano i piccoli e grandi ristoratori. Locali che a volte si ingrandiscono, acquisendo altri spazi, oppure chiudono per lavori di ristrutturazione di pregio. Attività per cui, evidentemente, il rischio d’impresa è nullo. 

"C'è la sensazione che qua a Bologna si stiano utilizzando i locali come lavatrici, una sorta di lavatrici di qualcos'altro, di soldi che vengono da qualcos'altro. Comprano locali a cifre impossibili. Io, per dire, il mio locale alla cifra a cui l’ho venduto, cioè varie centinaia di migliaia di euro, non lo comprerei mai. Perché se mi metto a pensare a quanti anni ci dovrei mettere per ammortizzarli, ai costi di affitto, di personale, di tutto, è quasi improponibile una roba del genere". 

Di Buccio: "La ristorazione di Bologna, la città del buon cibo, è un target imprenditoriale di grande riferimento per svolgere attività di riciclaggio"

Un settore come quello della ristorazione, in costante crescita, offre grandi opportunità a chi ha soldi da ripulire. Uno schema a prima vista semplice: "La ristorazione di Bologna, la città del buon cibo, è un target imprenditoriale di grande riferimento per svolgere attività di riciclaggio". A dirlo è Stefania Di Buccio, avvocata e amministratrice giudiziaria, che spiega: "Ogni volta che batto uno scontrino in cassa, soprattutto a fronte di un mercimonio che non è mai avvenuto, sto pulendo del denaro che proviene da capitali illeciti. Ogni scontrino mi consente di legittimare uno, due, dieci, cento euro nella ristorazione. Questo è assai facile perché la ristorazione prevede un giro di clientela a rotazione. È quindi difficilissimo dire ad esempio di non aver venduto la pasta: perché magari sono venuti in un turno del pranzo venti, trenta clienti e io posso fare cinque, dieci, venti scontrini o duecento, trecento, quattrocento scontrini e giustificare così i soldi illeciti".

Cosa c’entrano le vetrine perfette? "Chi ricicla tende ad avere tutto in regola soprattutto dal punto di vista dei dipendenti e del magazzino. Ovviamente io sono consapevole che sto utilizzando l'attività come lavanderia e quindi ho tutto l'interesse a far sì che non arrivino controlli", spiega una persona che da anni lavora come dipendente nel mondo della ristorazione. 

Che cos'è l'usura? Un fenomeno antico, oggi appannaggio di finte società finanziarie, singoli strozzini e crimine organizzato 

Anche la criminalità organizzata ha forti interessi a entrare nel settore della ristorazione, lo hanno dimostrato diverse indagini su tutt’Italia. Nel 2021, il prefetto Vittorio Rizzi, coordinatore dell’organismo a monitoraggio delle infiltrazioni mafiose nell’economia, aveva raccontato a lavialibera che dai “carotaggi” in alcune città di Nord, Centro, e Sud Italia era emerso che “il 25 per cento delle imprese del settore dell’ospitalità e della ristorazione è finito in mano a soggetti che, se fossero passati al vaglio dei controlli, avrebbero ricevuto un’interdittiva antimafia. Per dirla con altre parole, il 25 per cento di queste imprese sarebbe ‘in odore di criminalità organizzata’”. Non è un caso che il meccanismo si attivi soprattutto nei periodi di crisi, quando l’imprenditore ha bisogno di liquidità e non riesce a ricevere finanziamenti dalle banche. "È allora che arrivano soggetti che ti propongono condizioni di credito molto spesso di tipo usurario, che comportano quasi sempre l’impossibilità poi a restituire il denaro prestato – spiega l’avvocata Di Buccio –. A quel punto la persona che ha prestato i soldi può iniziare a pretendere delle quote della tua società: è la cosiddetta espropriazione dall’interno". 

"Dovremmo iniziare a farci delle domande"

Si assiste ad altri movimenti irregolari o quantomeno anomali: società che gestiscono locali e non pagano le tasse allo Stato o i dipendenti, accumulano debiti, falliscono ma vengono prontamente sostituite da nuove società che ne rilevano subito l’attività per mandarla avanti, pulita e senza debiti, ma sempre con lo stesso nome. Anche questo non è un meccanismo nuovo: "È un gioco al massacro", afferma Stefania di Buccio. "Si crea un'unità imprenditoriale già sapendo che la finalità è il riciclaggio. Si apre questa unità e le si dà un'emivita già precalcolata in cui si tende solo ed esclusivamente al profitto per l'imprenditore. Non si pagano Iva, tasse, contributi, l'occupazione del solo pubblico, i fornitori vengono pagati in maniera assolutamente dilatoria perché lo scopo è quello di incassare il più possibile nella consapevolezza che quella unità andrà a fallire e sarà svuotata poco prima del fallimento". A quel punto i beni di quell’attività sono già pronti per una seconda unità clone, anche nello stesso posto: "Noi consumatori dovremmo iniziare a interrogarci su queste insegne che cambiano ma le persone dentro sono sempre le stesse - dice Di Buccio -. Dovremmo iniziare a farci delle domande". 

Ruggiero: Il pranzo è servito, nei ristoranti dei boss

Grandi acquisizioni, rischi di riciclaggio e un modello che rischia di andare in una direzione di omologazione dell’offerta, realtà imprenditoriali tra loro molto diverse, che contribuiscono insieme a modificare l’orizzonte della ristorazione cittadina: "Questa - ricorda una ristoratrice - è concorrenza super sleale. Ti devi omologare oppure andare via. Ti dovresti mettere a far concorrenza, metterti a fare cucina turistica, abbattere 1/2 euro a tagliatella: o abbassi la qualità oppure non incassi abbastanza per poter pagare le fatture e tutte le spese". Un aspetto che non riguarda solo la qualità del cibo, ma anche lo sfruttamento di lavoratori e lavoratrici. Chi può acquisire le attività lo fa perché ha una grande disponibilità di denaro. "Quando una persona ti offre certe cifre è perché ti sta buttando fuori, non puoi rifiutare, perché per te è una seconda occasione. Quindi loro ti buttano fuori", dice. A cui si aggiunge un lavoratore del settore: "Per chi fa l'onesto è demoralizzante, perché è come dire: "Io lavoro e tu no"".

Questo articolo nasce da un lungo lavoro di ricerca e approfondimento, che ha portato alla pubblicazione della videoinchiesta di Libera Bologna "La febbre del cibo. Le ombre della ristorazione bolognese". Per fare inchieste indipendenti sono necessari tempo e risorse: per continuare a farlo Libera Bologna ha lanciato un crowdfunding, tutte le informazioni a questo link

 

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