29 febbraio 2024
Sorpresa e incredulità. Questo abbiamo letto sui volti di molti attivisti africani che, nel giugno dello scorso anno, hanno partecipato al primo incontro della rete Pace e liberazione in Africa per il cambiamento e la partecipazione (Place), promossa da Libera. Come mai questa reazione? Perché, per la prima volta, si trovavano di fronte a dei “bianchi” che invece di spiegare cosa fosse utile e necessario per il Continente, si mettevano in posizione di ascolto, lasciando loro la parola.
Lo stesso imbarazzo, ma per ragioni ben diverse, aleggiava tra i leader africani invitati a fine gennaio in parlamento per la presentazione del Piano Mattei: un programma di azioni che l’Italia vorrebbe mettere in campo per favorire lo sviluppo dell’area e contrastare l’emigrazione. Programma "sul quale avremmo auspicato di essere stati consultati", ha commentato con schiettezza il presidente dell’Unione africana Moussa Faki, lasciando trapelare la delusione di essere considerati non interlocutori ma semplici destinatari delle politiche italiane ed europee, quasi si trattasse di una forma di beneficenza.
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Il principale problema del nostro rapporto con l’Africa, nel passato come nel presente, è la tendenza a considerarla sempre e comunque subalterna. Una terra da depredare, per alcuni: di risorse agricole, minerarie e umane. O un contesto in perenne crisi da “aiutare”, secondo altri. Decidendo però noi le priorità e le forme dell’aiuto. Questo numero de lavialibera ci racconta un’Africa diversa. Non il grande triangolo a testa in giù disegnato nelle nostre mappe mentali, ma un continente complesso, con differenze abissali tra un paese e l’altro, fra una generazione e l’altra.
Il principale problema del nostro rapporto con l’Africa, nel passato come nel presente, è la tendenza a considerarla sempre e comunque subalterna
E che la testa la vuole rialzare a modo suo, per guardare in faccia le sfide odierne da protagonista. Il protagonismo dell’Africa e degli africani è del resto ciò che ci sta a cuore fin dalla nascita della Communauté Abel di Grand Bassam, in Costa D’Avorio, aperta quarant’anni fa da alcuni volontari del Gruppo Abele in collaborazione con la locale diocesi e il ministero della Giustizia. Eravamo stati chiamati per un progetto a favore dei giovani finiti nel circuito penale; a fronte di carceri sovraffollate e nessuna risorsa educativa, ci era stato chiesto di costruire percorsi simili a quelli avviati in Italia: comunità, formazione, accompagnamento al lavoro.
In molti contesti, compreso quello della solidarietà, tende a sopravvivere uno sguardo coloniale che fa dell’Africa un semplice scenario delle decisioni altrui
Da allora il progetto si è ampliato in tante direzioni, ma sempre con l’obiettivo di rispondere a una “chiamata” del territorio. E sempre gestito in massima parte da operatori e operatrici del posto, per questo la Communauté non è percepita come un corpo estraneo, ma si è integrata nel tessuto sociale, economico e culturale della regione, diventando un punto di riferimento non soltanto per le persone e famiglie in difficoltà, ma anche per ricercatori, amministratori, insegnanti e chiunque si voglia formare, informare e proporre idee innovative per i problemi della Costa D’Avorio.
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Perché invece in molti contesti, inclusi quelli della solidarietà, tende a sopravvivere uno sguardo coloniale, che fa dell’Africa un semplice scenario delle decisioni altrui, piuttosto che un attore protagonista della propria storia? Forse perché sull’Africa il mondo intero ha la coda di paglia. Secoli di sfruttamento e un presente di egemonia economica e opportunismi politici hanno profondamente segnato tutta l’area, contribuendo ad alimentare povertà, instabilità politica, guerre, dissesto ambientale e migrazioni che io preferisco chiamare "deportazioni indotte", cioè la fuga obbligata di chi non ha altra scelta per sopravvivere. Lasciare parola agli africani su tutto questo produrrebbe un’analisi scomoda da accettare. Quindi meglio rifugiarsi nella retorica del sottosviluppo (anche se nessuno più osa chiamarlo così) o del continente disastrato al quale tendere generosamente la mano.
La nascita di Place a Grand Bassam, proprio nei giorni del quarantesimo compleanno della Communauté, ha voluto marcare la distanza rispetto a queste visioni, che le giovani generazioni di africani non sono più disposte ad accettare. La rete – che è parte del progetto di Libera Internazionale – riunisce oltre 40 realtà provenienti da 16 paesi del Continente, con l’obiettivo di stimolare una risposta non soltanto dal basso, ma dall’interno, affrontando gli enormi problemi di illegalità che si riscontrano ovunque.
Una volta compreso che vi era un reale interesse ad ascoltare il loro punto di vista, i delegati hanno preso in mano quell’ideale foglio bianco e iniziato a riempirlo di ciò che osservano accadere nelle loro società. Il risultato sono visioni lucide e appassionate, senza reticenze nel descrivere problemi e contraddizioni dell’oggi, ma anche ricche di proposte per affrontarli. Dal cambiamento climatico che spinge molte regioni alla fame, alla mancanza di opportunità di formazione ad alto livello, che induce i giovani talenti a emigrare senza spesso fare ritorno.
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Dall’arretratezza economica, che vede l’Africa come esportatore di materie prime a basso costo, incapace di sviluppare una propria industria, alla corruzione che disperde risorse e sostiene regimi politici autoritari. Dagli snodi locali del narcotraffico fino ai rapporti ambigui non più soltanto con l’Occidente, ma con la Russia, la Turchia, l’India e la Cina, che a suon di investimenti e favori stanno acquisendo sempre maggiore peso nel Continente, senza che le popolazioni ne traggano alcun beneficio. C’è consapevolezza di tutto questo fra i giovani africani. E desiderio di voltare pagina. Stavolta, però, quella pagina nuova, di cambiamento e speranze, la vogliono scrivere loro.
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