30 gennaio 2024
“Sul piano Mattei ci sarebbe piaciuto essere consultati prima. Ora bisogna passare dalle parole ai fatti. Non possiamo più accontentarci di promesse che spesso non sono mantenute”. Sono bastate poche parole, quelle pronunciate dal presidente della Commissione dell’Unione africanaMoussa Faki Mahamat, per guastare il clima della Conferenza Italia-Africa che si è svolta ieri a Roma e gettare un’ombra sulla promessa italiana di un “nuovo modello di cooperazione”, costruito “per e con l’Africa”. Il vertice, fortemente voluto da Giorgia Meloni, ha visto sfilare nella Capitale le delegazioni di quarantasei Stati africani e ventitre organizzazioni internazionali, tra cui le Nazioni unite, l’Unione africana e l’Unione europea.
La premier ha rivendicato un grande successo. Eppure, la concretezza promessa ancora non si vede: i lavori si sono conclusi senza un impegno economico da parte dell’Ue e senza alcun documento programmatico, se non una pagina, preparata in anticipo dal governo italiano, che descrive in poche righe i “cinque pilastri” del piano Mattei: istruzione e formazione, salute, agricoltura, acqua ed energia. Per ognuno, Meloni ha citato qualche “progetto pilota” in alcuni paesi. Ma sul resto delle iniziative, le modalità di progettazione, realizzazione e valutazione, i finanziamenti, i paesi coinvolti, il ruolo degli attori privati e delle organizzazioni internazionali rimangono ancora molti punti di domanda.
Africa: questione di interessi
L’iniziativa, intitolata al fondatore di Eni Enrico Mattei, è comparsa per la prima volta nel programma di Fratelli d’Italia per le elezioni politiche del 25 settembre 2022: si parla di una “formula Mattei per l’Africa”, volta a “promuovere un ‘modello Italia’ di investimenti e cooperazione allo sviluppo, rispettoso dell’ambiente e dei popoli”. Giorgia Meloni ne ha poi parlato nuovamente, appena nominata presidente del Consiglio, durante il discorso di insediamento in parlamento: “Credo che l’Italia debba farsi promotrice di un ‘piano Mattei’ per l’Africa, un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione europea e nazioni africane”.
"Noi ci prendiamo oro, uranio, ferro, petrolio, gas e lasciamo strade, porti, zone industriali, scuole, ospedali"Edmondo Cirielli - viceministro degli Esteri
L’idea di fondo, che traspare da alcune dichiarazioni di esponenti della destra, è che l’Italia goda di una posizione privilegiata nei rapporti con l’Africa non soltanto per la sua collocazione geografica, ma anche per la sua presunta “verginità” rispetto al passato coloniale e alle politiche predatorie che invece macchierebbero la reputazione di altri paesi (Meloni si è spesso scagliata contro l’approccio “vomitevole e cinico” adottato dalla Francia). L’Italia, invece, avrebbe “costruito e realizzato nei suoi cento anni di colonie in Africa”, dando prova di una “cultura civilizzatrice”, come ha sostenuto il viceministro degli esteri Edmondo Cirielli, di Fratelli d’Italia, lo scorso giugno. Nella stessa occasione, Cirielli aveva espresso con rara chiarezza i termini della transazione che il governo intende stipulare con il piano Mattei: “Noi ci prendiamo oro, uranio, ferro, petrolio, gas e altre cose” e lasciamo “strade, porti, zone industriali, scuole, ospedali”.
Di “piano Mattei” Meloni ha poi continuato a parlare in altri interventi e durante le sue molteplici visite nel continente africano, ribadendo sempre il carattere “nuovo”, “non paternalistico”, “non predatorio” e “paritario” del modello di cooperazione che si intende stabilire. Gli obiettivi che emergono dalle dichiarazioni della premier sono due: fare dell’Italia “l’hub energetico dell’Europa” e ridurre i flussi migratori dall’Africa verso il nostro paese, creando sviluppo nei paesi d’origine e di transito e garantendo così il “diritto a non emigrare”, come ha affermato durante la conferenza di fine anno.
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Al di là delle dichiarazioni d’intenti, però, di concreto c’è solo il decreto-legge, di soli cinque articoli, che definisce gli obiettivi generali e la governance del piano. Adottato dal Consiglio dei ministri il 3 novembre scorso, è stato poi approvato dal Senato il 19 dicembre e dalla Camera il 10 gennaio, con modifiche minime (tutti gli emendamenti presentati dalle opposizioni sono stati respinti). Si parla di un piano quadriennale volto a “promuovere lo sviluppo in Stati africani”, con particolare attenzione ai settori dell’energia, delle esportazioni, degli investimenti, dell’istruzione, della ricerca, della salute, dell'agricoltura, del digitale, dello spazio, del turismo, della cultura e del “contrasto dell’immigrazione irregolare e gestione dei flussi legali”. Il decreto istituisce poi la cabina di regia incaricata di “coordinare, finalizzare e monitorare” il piano. Presieduta dal presidente del Consiglio, comprende i ministri, il presidente della Conferenza delle regioni e i rappresentanti di enti pubblici e privati, di società partecipate, del sistema dell'università e della ricerca, della società civile e del terzo settore e di non meglio specificate “imprese industriali”. La lista dettagliata dovrà essere emanata tramite decreto entro metà marzo.
C'è la cornice ma non il contenuto: non si sa quanti e quali siano i paesi coinvolti e i singoli progetti, quanti fondi per ognuno, quali criteri e meccanismi per attivarli e monitorarne l'impatto, quale il ruolo dell'Ue e delle società pubbliche, partecipate e private
In altre parole, c’è la cornice ma non il contenuto: la legge tace su quanti e quali siano i paesi coinvolti e i singoli progetti, quali criteri e meccanismi per attivarli e monitorarne l’impatto, quali i ruoli rispettivi del governo, dell’Unione europea, di cui spesso è stato invocato un non meglio specificato coinvolgimento, e delle società pubbliche, partecipate e private. Interrogativi che neanche il vertice di oggi ha sciolto.
In assenza di maggiori dettagli sulla sostanza, è difficile capire quanto e come il piano sia effettivamente nuovo rispetto al business as usual. Quel che è certo è che gli obiettivi dichiarati e la retorica che lo accompagna sono molto simili a quelli di decine di altre iniziative che si sono succedute negli ultimi vent’anni a diversi livelli, sempre con la stessa ambizione (ma pochi risultati): risollevare le sorti dell’Africa, considerata l’origine di tanti dei problemi che affliggono l’Europa e l’Occidente, dal terrorismo all’immigrazione. Ci sono stati, nell’ordine, il “G8 Africa Action Plan” del 2002, di cui l’allora premier Berlusconi è stato tra i promotori, la “Strategia congiunta Ue-Africa” del 2007, il “piano Renzi” del 2016 e quello della cancelliera tedesca Merkel del 2017, fino al pacchetto di investimenti previsto nell’ambito dell’iniziativa Global Gateway dell’Ue, approvata nel 2021 come risposta europea alla “Nuova via della seta” cinese. L’approccio Meloni si distingue però per una particolarità: a differenza delle iniziative precedenti, il piano Mattei non contempla tra i suoi obiettivi la risoluzione dei conflitti, la protezione dei diritti umani e il supporto ai processi di democratizzazione dei paesi interessati.
Tra i punti di domanda ancora da sciogliere c’è anche quello dei finanziamenti. Nel discorso di apertura del vertice di oggi, la premier Meloni ha dichiarato che 5,5 miliardi di euro sono già disponibili: 2,5 vengono dai fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo (che quindi sarebbero stati investiti indipendentemente dal piano) e i restanti 3 dal fondo italiano per il clima. Il taglio al fondo (-70 per cento) per finanziare il piano Mattei era stato annunciato lo scorso luglio tra le polemiche, considerato anche che, stando a quanto hanno dichiarato esponenti del governo, una parte consistente del piano riguarderà i combustibili fossili.
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Risorse insufficienti rispetto agli obiettivi, come ha ammesso la stessa premier, che ha per questo auspicato il contributo di “istituzioni finanziarie internazionali, di banche multilaterali di sviluppo, dell’Unione europea e di altri Stati donatori”. Di soldi dall’Ue sembra però non ne arriveranno: intervenendo alla conferenza, la presidente della commissione Ursula Von Der Leyen ha elogiato il piano Mattei, senza però annunciare alcuno stanziamento e anzi sottolineando come l’Europa sia già impegnata a finanziare iniziative simili come il Global Gateway, a cui saranno destinati 150 miliardi di euro fino al 2027. Tra gli “altri Stati donatori” si pensa invece agli Emirati Arabi Uniti, che alla Conferenza sullo sviluppo e le migrazioni organizzata sempre a Roma a luglio avevano promesso 100 milioni di euro per finanziare progetti in Africa, ma si pensa che anche l’Arabia Saudita possa contribuire. Tra i possibili partner finanziari privati figura anche il nome del fondatore di Microsoft, Bill Gates, che da oltre vent’anni finanzia attraverso la sua fondazione progetti umanitari in Africa. Il magnate è stato ricevuto alla Farnesina il 19 gennaio e, secondo Il Messaggero, avrebbe discusso insieme ai vertici del governo di possibili accordi sul Piano Mattei.
La premier Meloni sperava nel contributo finanziario dell'Unione Europea, che però non è arrivato. Von Der Leyen ha elogiato il piano Mattei, ricordando però che l'Ue è già impegnata in iniziative simili
Resta da capire anche quale sarà il coinvolgimento degli attori privati, che Meloni ha indicato come “fondamentale”. Quello che sappiamo è che i rappresentanti di alcune imprese pubbliche, private e partecipate (si attende la lista dettagliata) siederanno nella cabina di regia. Si pensa soprattutto a Eni, non solo perché il piano è intitolato al fondatore, ma anche perché l’attuale amministratore delegato Claudio Descalzi è stato accompagnatore fisso del tour africano di Meloni e dei suoi ministri. La mappa qui sotto mette a confronto i Paesi africani in cui membri del governo hanno discusso del piano Mattei e quelli interessati dal piano di sviluppo di Eni, mostrando molti casi di sovrapposizione. Sono anche indicati i "progetti pilota" citati da Meloni durante la conferenza:
L’approccio Descalzi-Meloni sembra ripercorrere una strategia adottata nel 2014 da Giuseppe Ceccarini, ex dirigente Eni, nella gestione delle visite di Matteo Renzi in Africa, all'epoca Presidente del Consiglio. In quell'anno, gli accordi tra Eni e vari paesi, dal Kazakistan all'Angola, dal Congo al Mozambico, si succedevano alle visite ufficiali del premier nei rispettivi luoghi, esattamente come è accaduto con Giorgia Meloni nel 2023. Renzi affermò in quell'occasione che "Eni è un pezzo fondamentale della politica energetica, estera, e della politica di intelligence".
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A suscitare qualche dubbio sulla novità e l’efficacia del piano Mattei sono anche alcune esperienze passate di cui l’Italia si è resa protagonista in Africa. La premier Meloni ha più volte presentato come esempio da replicare il memorandum Ue-Tunisia firmato sotto i suoi auspici lo scorso luglio, con il quale la Commissione europea si era impegnata a versare un miliardo di euro tra fondi per il rafforzamento dei controlli costieri, sostegno diretto al bilancio nazionale e finanziamento di progetti di sviluppo. Lo scorso ottobre, il presidente tunisino Kais Saied aveva rifiutato la prima tranche bollandola come “elemosina”. La crisi è poi rientrata, ma ha mostrato una volta di più quanto siano fragili gli accordi stretti con regimi politici instabili o autoritari.
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Altro precedente problematico è quello della Libia: nel gennaio 2023, il ministro del petrolio Mohamed Aoun ha denunciato come illegale un accordo da 8 miliardi a beneficio di Eni sottolineando l’assenza di “uguaglianza tra la Libia e l’Italia”. Il rapporto con la Libia ha subito un ulteriore shock lo scorso ottobre, quando il parlamento di Bengasi ha minacciato di espellere gli ambasciatori e interrompere le forniture di gas e petrolio verso i paesi che sostengono Israele, tra cui l’Italia, a seguito del conflitto nella Striscia di Gaza.
In Nigeria, una commissione indipendente ha ritenuto Eni e altre società straniere responsabili di una "catastrofe ambientale e umana". Accuse anche dal Mozambico
Alcune esperienze, poi, rivelano quanto sia controverso accostare l’immagine di un colosso del fossile come Eni allo sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente nei paesi africani in cui opera. Per ricordare alcuni casi, in Nigeria una commissione indipendente ha dimostrato il coinvolgimento del cane a sei zampe nello sversamento di centinaia di migliaia di barili di petrolio nella regione di Bayelsa, che ha causato una “enorme catastrofe ambientale e umana”. A questo proposito, ha fatto interrogare l’assenza della Nigeria, lo Stato africano più popoloso e ricco, al vertice: eppure il presidente Tinubu si trovava a Parigi, a meno di due ore di aereo, per una “visita privata”.
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Altro caso emblematico è quello del Mozambico: secondo un rapporto di Friends of the earth international, Eni e altre multinazionali, d’accordo con il governo, avrebbero disposto il trasferimento di migliaia di persone per fare spazio agli impianti estrattivi. L’Istituto nazionale del petrolio mozambicano, inoltre, ha più volte denunciato il mancato rispetto delle norme che fissano la quota di gas da destinare all’uso domestico e di lavoratori mozambicani da impiegare negli impianti (le società preferiscono spesso la manodopera straniera, meno costosa). Elementi che sembrano smentire la retorica della “cooperazione paritaria” che porta sviluppo nei paesi interessati.
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