2 marzo 2024
L’apertura (o la riapertura) di un museo è di per sé una bella notizia, soprattutto quando il patrimonio coinvolto nell’esposizione è nascosto agli occhi delle persone da moltissimo tempo. Se poi il percorso museale in questione è dedicato alle scienze naturali, l’attenzione aumenta e con essa anche le aspettative del mondo accademico, di quello specialistico e del pubblico generico.
Da più di due secoli, nei percorsi di questi musei è comune trovare animali imbalsamati ed erbari provenienti dalle ex colonie europee testimoni sia dell’interesse del Vecchio Continente per territori lontani in quanto luoghi da conquistare ed espoliare (non solo dal punto di vista culturale ma anche ambientale) sia della volontà di approfondire e confermare, attraverso il materiale naturalistico, le teorie scientifiche su evoluzione delle specie e selezione naturale.
L’aumento di interesse – soprattutto da parte delle nuove (e future) generazioni – su cambiamento climatico, biodiversità e il rapporto fra essere umano e ambiente ha spinto diverse istituzioni italiane a stimolare la riflessione attraverso mostre temporanee
Negli ultimi anni, invece, l’aumento di interesse – soprattutto da parte delle nuove (e future) generazioni – nei confronti di temi intrinsechi alla ricerca naturalistica, quali il cambiamento climatico, la conservazione della biodiversità e il rapporto (passato e presente) fra essere umano e ambiente, ha spinto diverse istituzioni culturali italiane a stimolare la riflessione del pubblico attorno a queste problematiche attraverso la realizzazione di mostre temporanee – come, per esempio, “Anthropocene” (Fondazione Mast, Bologna, 2019-2020) – e il riallestimento permanente di collezioni naturalistiche e scientifiche prima nascoste in deposito – come nel caso del MuSe di Trento (2012) o di Kosmos - Museo di storia naturale di Pavia (2017).
Anche a Torino, dopo dieci anni e più di chiusura (provocata da un’esplosione nell’agosto 2013), a inizio gennaio 2024 è stato reistituito il Museo regionale di scienze naturali (Mrsn). Entusiastici articoli di giornali segnalano come la sua riapertura abbia portato un gran numero di visitatori e visitatrici tra le sale del museo, persone spinte, oltre che dall’interesse individuale per le scienze naturali e biologiche, anche dal fatto che la città fosse sprovvista di altri importanti musei naturalistici. Tra l’altro, Torino vanta da secoli una particolare vocazione per queste discipline, soprattutto in ambito universitario. Ricordiamo che a far conoscere il pensiero di Charles Darwin in Italia fu Filippo De Filippi, docente di Zoologia all'Università degli Studi di Torino dal 1848 al 1867, la cui celebre conferenza “L’uomo e le scim(m)ie” del 1864 illustrò per prima volta la teoria darwinista al grande pubblico.
Verrebbe dunque spontaneo ipotizzare che a guidare il progetto di riallestimento sia stata l’urgenza di prendere parte a discussioni come quelle menzionate sopra e ormai (fortunatamente aggiungeremmo) pervasive della nostra contemporaneità sia a livello accademico, sia civile. Invece, allo sfumare dell’entusiasmo iniziale, emergono non poche problematicità.
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Come possiamo imparare a interagire e convivere (diversamente rispetto al passato) con una natura che ci insegnano a pensare viva, ma ad ammirare da morta?
La prima grande sala (sproporzionata, forse, rispetto al resto del percorso) presenta, attraverso l’esposizione dei classici animali impagliati e dei loro scheletri, la divisione del mondo in diverse aree biogeografiche – più o meno remote – e le diverse modalità di locomozione.
Passeggiando accanto alle vetrine ottocentesche, ci scopriamo impegnati in un dialogo silenzioso con le bestie immobili. Senza avere la certezza di chi stia guardando chi, vediamo riflessa nei loro occhi vitrei la nostra curiosità. Probabilmente l’intenzione è quella di portare il pubblico a riflettere sull’importanza della biodiversità, cosa che, tuttavia, risulta difficile vista la scarsità di supporti esplicativi.
Non solo, poiché la domanda che dovremmo porci è, come possiamo imparare a interagire e convivere (diversamente rispetto al passato) con una natura che ci insegnano a pensare viva, ma ad ammirare da morta?
In questo senso, il modello museografico adottato dal Mrsn non ci mette tanto davanti a delle “cose della natura”, quanto piuttosto alla nostra relazione con esse. Una natura morta e messa in vetrina è una natura docile, innocua, che sentiamo di poter dominare e che, in un certo senso, non ci riguarda. La verità, invece, è che a essa non ci possiamo sottrarre. Siamo parte integrante e influente dei suoi equilibri e il senso di sicurezza che il museo ci dà di fronte a creature e fenomeni con cui abbiamo enorme difficoltà a confrontarci non è che un’illusione. Un’illusione da cui ci dobbiamo quanto prima allontanare, anche ripensando più o meno radicalmente il modo di raccontare la natura e le sue manifestazioni.
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Un lessico ancora vincolato a concetti come “scoperta” o “conquista” sono stati messi in discussione in favore di altri che riconoscano la partecipazione delle popolazioni native alla conoscenza scientifica
Il percorso poi continua con una seconda sala dedicata ad alcuni noti “esploratori” del passato. Alcune postazioni, costruite in modo tale da ricordare la stiva di un veliero, ripercorrono la missione scientifica di circumnavigazione del globo effettuata, a fine Ottocento, dalla pirocorvetta Magenta della Regia Marina italiana.
Qui le scenografie appaiono più elaborate e a reperti naturalistici (zoologici, botanici, mineralogici) raccolti fra Brasile, Uruguay e Argentina sono accostate carte geografiche, illustrazioni e strumentazioni scientifiche. La narrazione è sostenuta da brevi pannelli, in cui si raccontano tappe e protagonisti della spedizione, e da un video che propone una selezione di alcuni dei più noti viaggi di “scoperta” nei secoli. Sono menzionati personaggi come Alessandro Magno, Marco Polo, Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, James Cook, Alexandre von Humboldt, Alfred Russel Wallace, Giovanni Antinori, Charles Darwin, Luigi Maria d’Albertis, Elio Modigliani fra diversi altri.
È abbastanza evidente che l’intenzione dietro a questo allestimento sia quella di restituire l’importanza storico-scientifica dei diversi reperti e avvicinare il visitatore alle vicende che caratterizzavano il contesto di raccolta.
Tuttavia, appare preoccupante l’uso di un lessico ancora profondamente vincolato a concetti come quelli di “scoperta” o “conquista” del territorio delle sue risorse – ormai ampiamente messi in discussione in favore di altri che riconoscano, se non la partecipazione delle popolazioni native alla produzione di una conoscenza scientifica, quantomeno la loro esistenza – e l’assenza totale di una riflessione critica sugli aspetti di predazione e sfruttamento tipici di queste spedizioni e di cui le collezioni naturalistiche sono testimonianza.
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Ci hanno abituato a pensare le spedizioni scientifiche come viaggi organizzati per pura curiosità e i loro condottieri come figure eroiche spinte dal desiderio di conoscenza, quando in realtà le motivazioni alla base di tali imprese erano quasi sempre politiche ed economiche. Scienziati e naturalisti hanno senz’altro contribuito alla produzione e alla diffusione di conoscenze importantissime per tutta una serie di aspetti delle nostre vite (dallo sviluppo tecnologico alle cure mediche), ma non dobbiamo dimenticare, né sottovalutare, che essi agivano per conto e all’interno di un sistema coloniale le cui conseguenze ancora oggi condizionano le vite di chi ne ha subito il giogo.
Vi siete mai chiesti chi forniva le informazioni a Humboldt, Cook o Modigliani? Chi trasportava le canoe con la strumentazione scientifica via terra quando le rapide impedivano la navigazione fluviale? Chi contribuiva in grandissima parte a cacciare e procacciare le centinaia di animali e piante che oggi affollano i nostri musei?
Molte delle conoscenze naturalistiche, geografiche, mediche che, come europei, ci vantiamo di aver “scoperto” sono in realtà il risultato di un processo di appropriazione e rielaborazione di saperi locali preesistenti
La risposta è sempre la stessa: popolazioni locali – spesso native – e schiavi. La loro partecipazione è tanto evidente nelle relazioni e nella corrispondenza dei viaggi, quanto silenziata nelle narrazioni che di essi ci vengono fornite a posteriori. Anche al Mrsn, ci troviamo di fronte a una sorta di “walk of fame” attraverso cui celebrare la vita di personaggi come quelli già citati e oscurare, ancora una volta, tutti gli altri. A questo proposito, una nota di amaro divertimento la regala il (nemmeno troppo) sottile narcisismo della versione AI (come creata dall’intelligenza artificiale, ndr) un po’ dandy e un po’ hipster del naturalista inglese Alfred Russell Wallace – collocata a metà della prima sala – che, quando interrogato, riporta costantemente l’attenzione su di sé e sulle sue spedizioni scientifiche intorno al mondo.
Da alcuni decenni, in ambito storico e antropologico, sì è sviluppato un dibattito piuttosto acceso riguardo l’urgenza di decolonizzare le collezioni etnografiche e coinvolgere le comunità indigene nei percorsi di allestimento che le riguardano. Considerato che molte delle conoscenze naturalistiche, geografiche, mediche che, come europei, ci vantiamo di aver “scoperto” sono in realtà il risultato di un processo di appropriazione e rielaborazione di saperi locali preesistenti il nostro arrivo, non sarebbe il caso di iniziare ad estendere sistematicamente questo processo di decolonizzazione ai musei di storia naturale?
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Il percorso non offre gli strumenti culturali per riflettere su temi come la crisi climatica e la conseguente perdita della biodiversità, il dinamismo di una natura in costante trasformazione, la relazione uomo-ambiente
Nell’ultima sala non c’è molto da dire o vedere se non qualche informazione relativa a un paio di scoperte paleontologiche in Piemonte e alcuni esemplari botanici e mineralogici esposti secondo modalità estetizzanti della natura che, completamente prive di spessore scientifico, appaiono più come un’installazione d’arte contemporanea o un set instagrammabile.
Insomma, domandandosi che cosa rimane al pubblico una volta concluso il giro delle sale la risposta è confusa e incerta. Il percorso, di per sé molto breve, non offre un vero e proprio racconto in grado di collegare tutte le collezioni presenti in mostra, né gli strumenti concettuali per riflettere su tematiche – come la crisi climatica e la conseguente perdita della biodiversità, il dinamismo di una natura in costante trasformazione, la relazione uomo-ambiente – che abbiamo detto essere centrali nel dibattito scientifico contemporaneo. E non è necessario spingersi con la mente in luoghi esotici per parlare di questi argomenti: il territorio torinese e piemontese – tra l’altro quasi inesistente nell’esposizione – è ricco di spunti a riguardo (basti pensare ai parchi urbani, all’inquinamento cittadino, agli ecosistemi dei fiumi, alla forte antropizzazione di colline e pianura, agli ambienti alpini).
L’impressione è dunque quella di un museo (ri)nato vecchio, privo di coraggio e di una missione, e che, ancora affezionato a modelli conoscitivi paternalistici e monolitici, di certo non porta alcun contributo al dibattito scientifico, museale e sociale.
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