1 maggio 2024
Lo scorso 7 marzo, a tre giorni dal voto in Abruzzo per eleggere il presidente della Regione, il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida si è recato a L’Aquila per partecipare alla cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria ai carabinieri forestali. A margine dell’evento, l’esponente di Fratelli d’Italia ha risposto ai giornalisti sulla "mafia dei pascoli", locuzione utilizzata per indicare l’insieme di fenomeni criminali legati all’assegnazione dei contributi stanziati dall’Europa a sostegno dell’agricoltura. "Non vogliamo solamente arginarla – ha detto –, l’obiettivo è combatterla e cancellarla". Lo stesso giorno, durante un talk su Youtube, il candidato presidente della destra Marco Marsilio, che poi vincerà, ha aggiunto: "L’Abruzzo ha l’orgoglio di essere l’unica regione del meridione a non avere una mafia autoctona, il popolo abruzzese ha gli anticorpi rispetto a questi fenomeni che si insinuano ovunque. Il primo fascicolo che ho mandato al ministro Lollobrigida quando si è insediato è stato quello sulla mafia dei pascoli, in modo tale che fosse subito al corrente di un fenomeno che da qualche anno sta preoccupando la nostra regione". Entrambe le dichiarazioni convergono su un punto: la mafia – non quella locale, che per il governatore Marsilio non esiste – sembra aver preso di mira i pascoli e serve agire con prontezza per difendere il territorio.
In campagna elettorale gli slogan sono certamente più efficaci delle analisi di fenomeni complessi, ma semplificare su questo argomento rischia di favorire proprio chi, da decenni, si arricchisce sfruttando le falle di norme contorte, magari fondate su nobili principi ma che all’atto pratico sembrano costruite per essere aggirate. E non soltanto dai mafiosi, che in certi territori hanno fiutato l’affare e stanno lucrando, ma anche da insospettabili capi d’azienda settentrionali, che in altri casi con la complicità dei pastori locali sono riusciti a mettere in piedi un meccanismo fraudolento che tra carte, bolli e autorizzazioni si muove nella legalità. Un sistema difficile da smontare perché, in fin dei conti, conviene a tutti.
Le frodi dei pascoli ad alta quota
Per capire che cosa sta succedendo nei pascoli italiani è fondamentale comprendere il funzionamento della Politica agricola comune dell’Unione europea (Pac, leggi qui per approfondire), la cui portata finanziaria è enorme: basti pensare che per il 2023-2027 è stato previsto uno stanziamento di 307 miliardi, il 40 per cento del bilancio di Bruxelles.
Il sistema si basa sui "titoli all’aiuto" in possesso delle aziende, il cui valore cambia con la tipologia di coltura. Chi coltiva il tabacco, ad esempio, ha un titolo elevato perché quella lavorazione prevede costi maggiori, chi alleva pecore ne ha uno inferiore. Per ricevere il denaro il titolo va “appoggiato” su un ettaro di terreno: in sostanza, per ogni titolo l’azienda deve avere la disponibilità di un ettaro. Più titoli si possiedono, più terra occorre. Questo meccanismo è definito “disaccoppiato”, perché a partire dal 2003 la concessione dei contributi annuali non dipende più dalla produzione (in base alle superfici coltivate o al numero di capi di bestiame) ma dai titoli posseduti dall’agricoltore e dagli ettari a sua disposizione, siano essi di proprietà, in affitto o in concessione. L’agricoltore che detiene titoli elevati ha quindi interesse ad accaparrarsi ampie porzioni di terreno, così da ricevere un contributo maggiore dall’Ue.
È qui che entrano in gioco le ricche aziende zootecniche della pianura, per le quali i remoti pascoli di alta quota sono diventati l’Eldorado: aggiudicarsi le superfici messe all’asta dai comuni, per fare aumentare l’estensione dei loro terreni, è solo una formalità, visto che gli allevatori non hanno la disponibilità per pareggiare le offerte delle imprese. Le stesse aziende dovrebbero poi utilizzare quei terreni per il pascolo, ma c’è chi ignora l’obbligo – favorito da controlli blandi – e li tiene vuoti. Altri portano in quota bestie vecchie e malate per lasciarle alla mercé dei predatori. Altri ancora si servono di pastori, locali o di altre regioni, che conducono gli animali nei terreni in concessione dietro laute ricompense. A quel punto il mosaico è completo, tutti ci guadagnano e si passa all’incasso. A pagarne le conseguenze sono gli allevatori onesti, i margari che non hanno più spazio per pascolare i loro animali, ma soprattutto i territori, che si stanno impoverendo e rischiano di perdere la loro vocazione naturale.
L’agricoltore che detiene titoli elevati ha l’interesse ad assicurarsi ampie porzioni di terreno, così da ricevere un contributo maggiore dall’Ue
C’è un altro anello di questa filiera di illegalità di cui poco si parla e che invece rappresenta il tassello base del business che alimenta la "mafia dei pascoli": la gestione degli animali. Quei prati-pascolo ai piedi di Alpi e Appennini, in cui chi beneficia dei fondi dovrebbe garantire tutela della biodiversità e benessere animale, a causa dell’incuria finiscono per essere inghiottiti da un rimboschimento selvaggio. Le prime vittime invisibili dell’avanzata degli arbusteti sono le specie selvatiche di queste aree: orchidee e piante a fiori prative, ad esempio, ma anche insetti impollinatori e uccelli passeriformi.
In quei prati che vengono invece stressati, gli animali costretti al pascolo finiscono spesso confinati in fazzoletti di terra. Il sovra pascolamento impoverisce la qualità del manto erboso, ma non solo. "Questi animali sono sottoposti a transumanze in condizioni insopportabili, trasferiti nei pascoli stipati a bordo di camion e costretti ad affrontare viaggi di centinaia di chilometri", spiega Federica Luoni, responsabile agricoltura della Lega italiana protezione uccelli (Lipu) e portavoce della coalizione Cambiamo agricoltura. "Una volta arrivati a destinazione vengono lasciati pascolare in aree non idonee anche dal punto di vista nutritivo poiché le erbe di cui si cibano non sono favorevoli al loro benessere".
Se il pascolo poi non è nemmeno simulato ma fantasma, il loro destino è la reclusione prolungata nelle stalle dove vanno incontro, inevitabilmente, a condizioni di stress e malattie. "Le mandrie di ovini, caprini e bovini se incustodite possono disperdersi, farsi del male e morire. Oppure possono finire preda di carnivori che abitano nel territorio in cui le mandrie si trovano a pascolare – prosegue Luoni –. Tutti questi aspetti si possono controllare e gestire se al fianco degli animali c’è una presenza costante di pastori e cani e se i prati in cui vengono condotti al pascolo sono delimitati". Condizioni basilari che interessano poco o nulla chi, da anni, punta solo ad accaparrarsi quanti più fondi europei possibili.
Se il pascolo è fantasma, il destino degli animali è la reclusione prolungata nelle stalle, dove vanno incontro a condizioni di stress e malattie
I raggiri sui pascoli, come ormai accertato da numerose inchieste giudiziarie, interessano più regioni d’Italia e in ogni territorio gli attori sono differenti, così come il modus operandi per accaparrarsi i fondi. Nella prefazione del libro Pascoli di carta, scritto da Giannandrea Mencini, Luigi Ciotti scrive: "Dove non c’è il coinvolgimento della criminalità mafiosa in senso stretto, si ravvisa comunque una diffusa mafiosità dei comportamenti, ossia la tendenza a mettere il profitto davanti a qualsiasi legge, di natura formale o morale, senza riguardo per chi prova a lavorare in modo trasparente, né verso l’integrità del territorio, che pure in questo ambito dovrebbe costituire un valore essenziale".
In Sicilia gli inquirenti hanno ricostruito una rete di complicità tra crimine organizzato e parte delle istituzioni, culminato con l’attentato all’ex presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, “colpevole” di aver denunciato gli interessi dei clan messinesi sui fondi della Pac.
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Nel Nordovest, ad esempio in Val Camonica, vallata lombarda tra le province di Brescia e Bergamo, un’indagine dei carabinieri forestali ha scoperchiato un sistema di truffe, con alpeggi che non avevano mai visto alcun animale e il proliferare di false perizie che aumentavano a dismisura le superfici dichiarate a pascolo, ma che in realtà non si prestavano a tale utilizzo.
I pascoli “fantasma” sono presenti anche in Piemonte, in Val di Susa, dove sono nate società fittizie in cui lo speculatore è il possessore dei titoli, mentre gli animali appartengono a margari rimasti senza alpeggio, che pur di pascolare le loro bestie rinunciano ai premi e permettono ai possessori dei titoli di incassare i fondi. Un fenomeno noto come "pascolamento per conto terzi", legale quanto distorto.
Nel Lazio, in Ciociaria, la pastora Assunta Valente ha subito minacce e le sono stati uccisi cani e mucche perché non si è piegata a chi voleva mandarla via. Un giorno ha trovato sbarrato l’ingresso ai pascoli, scoprendo che la terra che per cui pagava l’affitto aveva cambiato proprietà, senza che il vecchio proprietario, sostiene, ne fosse a conoscenza.
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Nel Nordest, ad aprile 2006, la Forestale ha smantellato un’associazione a delinquere che ruotava attorno a sette imprenditori del Trentino: ricevevano illegalmente finanziamenti per il comparto zootecnico. Il direttore della divisione di polizia ambientale, Ugo Mereu, aveva commentato così l’operazione: "Le truffe in danno dello Stato e della Comunità europea sono un fenomeno silenzioso, strisciante, che non solleva polvere. Che soprattutto determina uno scarso allarme sociale, perché in apparenza toccano tutti e nessuno. Insomma, crimini impersonali, dai meccanismi oliati e poco rumorosi, azionati non da criminali comuni, ma da professionisti in giacca e cravatta. In realtà assistiamo a truffe diffuse che hanno un peso economico enorme sugli enti pubblici e che sono in grado di alterare gli equilibri di mercato, e di minare la fiducia di chi fa impresa in modo leale e corretto". A distanza di anni gli imputati trentini sono stati tutti assolti e anche negli altri procedimenti le condanne si contano sulle dita di una mano.
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