Chris Obehi a Verona.
Chris Obehi a Verona.

Dal deserto a Palermo, Chris Obehi: "La musica è contro il razzismo"

Ha attraversato il deserto per sfuggire a Boko Haram, ora Chris Obehi usa la sua arte e le sue canzoni per rivendicare i diritti di chi non ha voce. "Giocare sulla pelle dei più deboli è rischioso"

Natalie Sclippa

Natalie SclippaRedattrice lavialibera

20 giugno 2024

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È sfuggito dalle persecuzioni di Boko Haram, ha attraversato il deserto a piedi e il Mediterraneo su un gommone. Ora vive a Palermo e racconta il mondo con la sua musica: Christopher Goddey, in arte Chris Obehi, canta e suona per mescolare le sue origini e il presente, tra afrobeat e canzoni tradizionali siciliane. Porta sul palco, accompagnato dalla chitarra, storie di diritti. “Non ci si può girare dall’altra parte – spiega Obehi – quando si vedono persone discriminate per l’aspetto o il colore della pelle. La politica deve stare attenta a giocare così con la vita di chi non ha voce e fa fatica a difendersi”. L’abbiamo intervistato a Verona, dove si è esibito all’Arena di Pace con Papa Francesco.  

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Chris, cosa vuoi trasmettere con la tua musica?

È molto semplice: voglio comunicare amore, gioia e libertà per tutti. Non sono emozioni personali, ma di chiunque, specialmente di chi non ha voce. In quello che canto risuona anche tanta spiritualità, perché in questo modo so di arrivare alle altre persone, mi connetto con le loro storie. 

Hai avuto la possibilità di esibirti all’Arena di Pace davanti a papa Francesco. Cosa hai provato?

È stata un’emozione enorme. Quando è arrivata la proposta, facevo fatica a crederci: è un sogno che si realizza. In quella occasione ho capito ancora una volta il grande valore della musica, che davvero può cambiare il modo in cui raccontiamo il mondo. Il ballo e il canto sono un antidoto contro la guerra.

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Qual è la tua definizione di pace?

Per me, pace si traduce in “luogo sicuro”

Per me, pace si traduce in “luogo sicuro”. Ma questo posto non ha delle coordinate geografiche fisse, non si trova solo in Europa, in America o in Africa. E non basta parlarne perché si realizzi, c’è bisogno di costruire spazi in cui si possa stare bene portando con sé la propria identità, le esperienze, i momenti che ha vissuto. È come se si arrivasse alla consapevolezza che non ci si salva da soli. 

Parte della tua storia è una storia di migrazione e nelle tue canzoni questo si percepisce, specie nell’album Mama Wata. Cosa ha significato per te lasciare il tuo Paese?

È una parte importante della mia vita. Sono arrivato in Italia nel 2015, a Palermo l’anno dopo, dove ho iniziato a scrivere quello che avevo vissuto fino a quel momento. La musica liberava le sensazioni e le emozioni che avevo provato. Così, ho cominciato a cercare un nome d’arte che esprimesse la mia essenza. Mi sono ricordato di un soprannome che mi dava mia nonna, quando ero piccolo: “Obehi”. Ho scoperto che in lingua Esan significa “mano d’angelo”. E anche l’album “Mama Wata”, cioè Mamma dell’acqua, mi riporta ai suoni e colori della mia infanzia. Questa parte della mia memoria di molto tempo fa mi ha fatto avere un collegamento con chi sono oggi, con la mia storia di migrazione, che però è condivisa con migliaia di altre vicende personali.

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Cosa insegnano?

Che migrare ha sempre fatto parte della storia umana. Chi lascia il proprio Paese, lo fa per diversi motivi, ma cerca il cambiamento. Le rotte regolari per arrivare in Europa, ad esempio, quasi non esistono. Ecco perché prima di accusare i migranti che arrivano in Italia sulle barche o che attraversano i confini bisognerebbe capire che tipo di percorso e quali scelte politiche sono stati portati avanti per arrivare a costringere le persone alle vie illegali. 

Anche tu sei arrivato in questo modo?

Poi un giorno, i trafficanti mi hanno caricato su un’auto e portato in prigione. Eravamo più di 400. Quelli sono posti dimenticati da Dio: maltrattamenti, urla, torture

Sì, faccio ancora un po’ fatica a raccontare quella parte della mia vita, anche se la musica mi ha aiutato a rielaborare, e forse è la prima volta che la ripercorro così. Sono partito dalla Nigeria e ho attraversato il deserto, ho in mente questa lunga camminata fino ad arrivare ad Agadez, in Niger. E poi ancora più a nord, in Libia. Di cosa sia successo lì ricordo poco. So solo che sono stato fortunato: non ho subito particolari violenze. Una mattina uno dei nostri trafficanti ha detto che il mio gruppo sarebbe stato spostato, per poi partire con il gommone. Una volta arrivato l’uomo, però, ci siamo rifiutati di seguirlo in macchina. Quella notte sia io che un mio compagno avevamo sognato di non dover andare: credo che quello ci abbia salvato. A Tripoli ho lavorato qualche mese in un autolavaggio. Poi un giorno, i trafficanti mi hanno caricato su un’auto e portato in prigione. Eravamo più di 400. Quelli sono posti dimenticati da Dio: maltrattamenti, urla, torture.

Poi c’è stata la traversata. 

Ho trascorso poco tempo in prigione. Poi siamo partiti verso l’Europa con il gommone. Eravamo in più di 100, nel gruppo c’era anche un bambino, solo. Stava male: me ne sono accorto quando, prendendolo in braccio, l’ho sentito freddo. Ho tolto la giacca e ho provato a scaldarlo. Intorno a me le persone cominciavano a piangere. E poi abbiamo visto l’elicottero e la nave. Prima sono saliti donne e bambini, poi anche io. Arrivato a Lampedusa ho rivisto il bambino, sorrideva. Era ancora vivo. Chissà che vita sta facendo ora, dove si trova. Per tanti altri invece, non è così: il Mediterraneo è uno dei più grandi cimitero del mondo.

Ai naufragi hai dedicato la canzone “Non siamo pesci”.

Il bambino che avevo in braccio sulla barca è riuscito a sopravvivere, ma per tanti non è stato così. A tutti loro ho voluto dedicare questa canzone, in particolare quando dico “quel giorno era uscito di casa, sperava di tornare presto [...] tutto quello che ho visto era un bambino in fondo al mare, costretto a vivere da pesce”

Quella canzone è un pugno nello stomaco. In quelle righe descrivo tutti i sogni, le speranze, le aspettative che si sono inabissate insieme alle persone nel Mediterraneo. Il bambino che avevo in braccio sulla barca è riuscito a sopravvivere, ma per tanti non è stato così. A tutti loro ho voluto dedicare questa canzone, in particolare quando dico “quel giorno era uscito di casa, sperava di tornare presto [...] tutto quello che ho visto era un bambino in fondo al mare, costretto a vivere da pesce”. 

Cosa risponderesti a chi fonda le proprie campagne elettorali sul razzismo?

Il consenso sulla paura è una strategia facile, ma che può avere conseguenze enormi sulle persone che lo subiscono. Le piccole discriminazioni quotidiane che si vivono possono peggiorare la vita, ma spesso sembra che non interessi, che quello che conta sia vincere sull’altro. Poi chi le subisce molto spesso se le fa scivolare addosso. Una volta una signora aveva commentato una mia performance di una canzone di Rosa Balistreri dicendo che un africano non poteva interpretarla, che stavo rubando la musica italiana. Ma l’arte è di tutti.

Ora vivi a Palermo. Qual è l’aspetto della città che ti piace di più?

Non ci sono dubbi: le crocchè palermitane!

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