Argentina, 24 marzo 2012. Una manifestazione in memoria dei quasi 30mila desaparecidos della dittatura (Foto Fora do Eixo/Flickr/CC BY-SA 2.0)
Argentina, 24 marzo 2012. Una manifestazione in memoria dei quasi 30mila desaparecidos della dittatura (Foto Fora do Eixo/Flickr/CC BY-SA 2.0)

Argentina, la figlia di due desaparecidos: "Milei reprime il dissenso"

In Argentina, l'associazione Hijos si batte per le 15mila persone fatte sparire durante la dittatura, ma il clima politico è lo stesso del 1976. Intanto, in Italia il processo a un ex militare va a rilento

Natalie Sclippa

Natalie SclippaRedattrice lavialibera

1 luglio 2024

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"Viva la libertad". È la frase scritta sul muro del salotto di una attivista di Hijos, gruppo che in Argentina raccoglie i parenti dei desaparecidos, gli scomparsi. Gli autori, due uomini che, lo scorso marzo, sono entrati in casa, l’hanno picchiata, violentata e minacciata perché la smettesse di cercare la verità. Poco tempo dopo, un altro membro del gruppo è stato aggredito, sempre in casa. Attacchi che si inseriscono in una lunga serie di minacce verso l’associazione di figli e figlie per l’identità e la giustizia contro l’oblio e il silenzio, che da 30 anni cerca di mettere insieme la memoria personale di migliaia di persone scomparse durante il Processo di riorganizzazione nazionale, la dittatura civile-militare che governò l'Argentina dal 24 marzo 1976 al 10 dicembre 1983.

 

"Il governo vuole persino chiudere l'università delle Madri di Plaza de Mayo"

Oltre alle difficoltà di ricostruire degli eventi, chi vuole sapere dove siano stati rapiti e ammazzati i propri cari si scontra spesso con lungaggini burocratiche, ostacoli giudiziari e impunità. Tra di loro c'è Eva Lerouc, a cui hanno ucciso il padre e fatto sparire la madre. Dal 2015 è spesso in Italia per testimoniare contro il colonnello Carlos Malatto, accusato di otto omicidi (fra cui quello del padre di Lerouc). L’uomo da qualche anno si è trasferito in Sicilia, godendo dei benefici della doppia cittadinanza. L’attivista chiede che Malatto risponda davanti alla legge italiana dei delitti che avrebbe commesso dal 1976 al 1983.

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In Argentina il militare rischia l’ergastolo per crimini di lesa umanità, reati riconosciuti dalla Corte penale internazionale, commessi durante una guerra con l’intenzione di colpire la popolazione civile. Per Lerouc, "la dittatura, attraverso l’ordine e la durezza, sembra una soluzione percorribile. Quando ci si accorge del disastro, spesso è troppo tardi".

Perché le sparizioni iniziate a metà degli anni ‘70 sono ancora un tema attuale?
Queste storie sono parte del nostro presente e l’impegno continua dopo quello delle nostre madri e delle nostre nonne. Il lavoro di Hijos è iniziato negli anni Novanta a La Plata e poi si è diffuso in tutto il Paese: all’epoca manifestavamo sotto le case di chi aveva appena riacquistato la libertà e urlavamo ai vicini le atrocità compiute da queste persone. Il presidente Carlos Menem ha firmato un decreto con cui concedeva l’indulto a chi stava subendo un processo, una sorta di pacificazione nazionale, con la sospensione di tutti i procedimenti iniziati dal 1983. Da quel momento abbiamo scelto di prendere posizione: se lo Stato non voleva punire questi crimini, sarebbe toccato a noi familiari chiedere giustizia. Dal 2003, con i cambiamenti politici e di governo e, in particolare, con il ritiro di alcuni decreti presidenziali, i processi sono ripartiti. I militari si sono difesi dicendo di avere solo eseguito degli ordini, scaricando le colpe sui loro generali. La giustizia è andata a rilento, tanto che la mia famiglia è stata ascoltata per la prima volta solo nel 2006. Per ricostruire quanto accaduto non bastano i singoli casi, le sparizioni e le uccisioni. Serve semmai un grande processo che ricostruisca il piano che portò alla scomparsa di oppositori politici, studenti, insegnanti e giornalisti. 

Perché i suoi genitori furono fatti sparire? 
Erano persone non gradite. Sono nata nel 1974, due anni prima della dittatura, e i miei genitori – Martha Saroff e Alfredo Lerouc – erano due giovani attivisti politici. Entrambi appartenevano all'organizzazione della Gioventù peronista e frequentavano l’università, dove tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta, c’era grande mobilitazione. Nello stesso periodo, però, cominciavano a rafforzarsi anche i movimenti di guerriglia e comparivano molti gruppi armati. Con l’inizio della dittatura facoltà come scienze politiche, lettere, filosofia cominciarono a essere presidiate dall’esercito, tanti professori e studenti furono portati via. Il regime si definiva "Processo di riorganizzazione nazionale" e chiunque si fosse opposto sarebbe stato tolto di mezzo. 

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Chi erano i desaparecidos? 
Spesso giovani, anche se non mancavano sindacalisti, insegnanti e professori. Uno degli avvocati che in quegli anni iniziò a chiedere giustizia è finito nell’elenco di chi non è mai più stato ritrovato. Mio padre era un tipografo e aveva stampato alcuni opuscoli d’opposizione al regime che fecero arrabbiare l’esercito, tanto che a suo carico fu emesso un mandato d’arresto. Decise allora di entrare in clandestinità e cambiare nome. Morì in uno scontro a fuoco e alla radio ne diedero l’annuncio. Mia madre l’aveva seguito e per questo mi aveva affidata ai nonni. Dieci giorni dopo il funerale di mio padre, davanti alla porta di casa, trovammo mio fratello. Di mia madre non ho più saputo nulla. Intanto, la mia famiglia si era spaccata: da un lato, c’era chi rinnegava la parentela e, dall’altro, chi continuava a sostenerci. Come mia nonna: senza la sua determinazione, il ricordo dei miei genitori e la ricerca della verità si sarebbero fermate.

In questi ultimi anni è spesso a Roma per testimoniare al processo contro Carlos Luis Malatto, ex colonnello di Jorge Videla. Cosa chiede? 
Prima di tutto giustizia, perché si provi quello che ha commesso. Malatto è accusato di otto omicidi: in Argentina, durante gli anni della dittatura, avrebbe potuto mettere in carcere gli oppositori e invece decise di ucciderli. È quindi venuto meno al dovere di un pubblico ufficiale, che ha il compito di proteggere i membri della sua comunità. Il procedimento a suo carico in corso a Roma è andato a rilento; a un certo punto c’erano perfino problemi con le traduzioni. Noi figli dei desaparecidos riteniamo sia anche una questione di equilibri politici tra Italia e Argentina, ma la nostra richiesta rimane semplice: sapere che fine ha fatto un’intera generazione che è stata zittita. 

La destra ha preso di mira poveri, stranieri, persone lgbtq+ e donne

Questa storia è stata seguita dalle persone italiane che vivono in Argentina?
Sono stati scritti alcuni articoli, ma non ho mai ricevuto alcuna notizia su una presa di posizione forte. Qui in Argentina la storia dei desaparecidos è un argomento sulla bocca di tutti, specie negli ambienti di centro-sinistra, un pezzo di storia che non possiamo cancellare nonostante ciò che sta avvenendo nel Paese.

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Si riferisce alla presidenza di Javier Milei?
Il Paese ha virato verso l’estrema destra, sentiamo discorsi terribili che pensavamo ormai superati:  attacchi omofobi, xenofobi e contro le donne. Quello che succede agli attivisti e alle attiviste di Hijos, che vengono picchiati e aggrediti, accade purtroppo ad altre centinaia di persone. Eppure qualcuno sostiene ancora che "con i militari al potere si camminava tranquilli". Le storie dei miei genitori e di migliaia di altri desaparecidos smentiscono questa frase, ma purtroppo un sentimento nostalgico sta investendo altri Paesi, tra cui l’Italia, dove si cerca in una figura forte la soluzione semplice a un presente complesso. E anche gli spazi di pensiero tornano a essere controllati. In Argentina, la repressione del dissenso sta diventando di nuovo una questione politica, proprio come nel 1976. Vogliono perfino chiudere l’università delle Madri di Plaza de Mayo. 

Come si è arrivati a questo punto?
I media hanno giocato e continuano a svolgere un ruolo importante: hanno cavalcato il malcontento e assecondato i partiti che semplificano la realtà, con discorsi d’odio che prendono di mira i poveri, la comunità lgbtq+ e gli stranieri, una polveriera di cui pochi sembrano preoccuparsi. Milei è stato abile a intercettare la stanchezza di molti cittadini nei confronti delle istituzioni. Ciò che ha promesso, però, è pericoloso: il suo slogan "Viva la libertad" ha due significati diversi se pronunciato da un palco o scritto sul muro di un salotto dopo un’aggressione. 

Il 24 marzo in Argentina si celebra il Giorno della memoria per la verità e per la giustizia a commemorazione della Guerra sporca, così chiamano il Processo di riorganizzazione nazionale. Cos’è successo quest’anno?
È una giornata importante e quest’anno lo abbiamo visto in modo chiaro: una grande marcia, unica, che ha messo da parte lotte intestine, malumori e differenze. La memoria ci ha permesso di costruire la nostra storia e, nel mio caso, di continuare un racconto della mia famiglia che altrimenti si sarebbe fermato con le mie nonne. Di questa vicenda personale, che è anche un racconto nazionale, mancano ancora molti pezzi e i processi sono un tassello indispensabile. Non so se chi ha commesso i crimini prima o poi parlerà o si porterà i segreti nella tomba, ma quello che dimostrano giornate come il 24 marzo è una manifestazione di coraggio che rafforza la memoria, i diritti fondamentali, la giustizia, l'educazione e la salute pubblica. Pilastri della democrazia a cui gli argentini non sono disposti a rinunciare.

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