Donne afghane. Foto: Wasim Mirzae da Pexels
Donne afghane. Foto: Wasim Mirzae da Pexels

I talebani disconoscono le atlete donne per Parigi 2024. L'Afghanistan in corsa verso il proprio passato

Il governo talebano ha disconosciuto le tre atlete afghane che parteciperanno alle prossime Olimpiadi di Parigi, segno internazionale di quello che succede entro i confini del paese. Le donne, escluse dall'istruzione, vengono relegate in casa e quelle che provano a infrangere le discriminazioni, punite. L'Afghanistan è tornato indietro di 40 anni

Lucia Vastano

Lucia VastanoGiornalista di guerra

18 luglio 2024

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“Solo tre atleti rappresenteranno l’Afghanistan” ha detto lo scorso otto luglio Atal Mashwani, portavoce del Dipartimento dello Sport afghano. “Attualmente lo sport femminile è interrotto in Afghanistan. Se non praticano sport, come possono far parte di un team nazionale?”. Le dichiarazioni alla stampa seguono l’annuncio del Comitato Olimpico Internazionale sulla composizione della squadra afghana per Parigi 2024.
Le tre ragazze, che formano la squadra di sei atleti in totale, sono state ufficialmente disconosciute dal proprio governo. Ultima manifestazione pubblica della discriminazione subita dalle donne afghane da parte dei talebani che reggono di nuovo il paese dal 2021, quando la coalizione Nato si è ritirata. Non solo dai fondamentalisti: padri e fratelli sono gli autori più frequenti delle discriminazioni quotidiane. Nelle strade e nei mercati dell’Afghanistan, anche di Kabul, sono quasi esclusivamente gli uomini che fanno acquisti. Così in fondo è sempre stato, anche prima del ritorno dei talebani. Le donne sono poche, non tutte indossano il burqa. Molte non lo hanno invece mai abbandonato, per scelta personale, per sentirsi più sicure o per sottomissione a obblighi familiari.

 Pane, lavoro, libertà!

“Per liberare le donne e per far progredire l’Afghanistan serve innanzitutto una pace duratura che estirpi la violenza dalla nostra quotidianità, dalle menti. Per lasciarsi alle spalle il patriarcato servirà poi un lungo lavoro culturale”

Ci sono ragazze coraggiose che di tanto in tanto sfilano con il capo coperto solo da un foulard o un hijab, in protesta contro le imposizioni dei talebani che limitano la loro libertà di muoversi, di studiare, urlano contro le torture e le violenze, i matrimoni combinati, gli stupri, l’apartheid di genere. “Pane, lavoro, libertà” è il loro slogan.
Il più delle volte si tratta di piccoli gruppi subito dispersi con insulti, minacce e manganelli dalla polizia. Altre volte i talebani fanno parlare i kalashnikov e allora succede che a terra in una pozza di sangue rimanga qualche vittima. 
É difficile che le manifestanti riescano a ottenere qualcosa, però ci provano, si fanno vedere e sentire, spesso tra l’indifferenza distratta dei passanti o persino la loro ostilità. 

Cicliste afghane in fuga dai talebani

Dove sono gli uomini?

Rose, avrà meno di vent’anni, mi si affianca mentre mi aggiro tra le bancarelle di un mercato. Vuole esercitare il suo inglese, ha voglia di raccontare la sua disperazione. Senza che io glielo chieda si dice delusa del comportamento degli uomini, compreso il padre che vorrebbe impedirle di uscire. Ma lui lavora e torna a casa la sera tardi, la madre capisce e le apre la porta.
“I problemi delle donne non sono una priorità. Non lo sono mai stati. Quelle ribelli sono in cerca di guai. É meglio che se ne stiano a casa” dice seccato un passante che origlia i nostri discorsi. In parte ha ragione: la disoccupazione, la fame, la mancanza di medicine per curare i bambini sono importanti priorità. Ma anche rimanere chiuse in casa è un problema serio per chi lo vive sulla propria pelle e vorrebbe contribuire a costruire un futuro più giusto per sé e gli altri. 

La repressione è più violenta quando la protesta tocca i temi più ampi e delicati della giustizia sociale, quando gli slogan riguardano i massacri sistematici contro minoranze etniche, come il genocidio in corso contro gli hazara, musulmani sciiti di discendenza mongola. Un tempo lontano erano la maggioranza della popolazione afghana, ora sono soltanto l’8%. 

Rose e io cambiamo discorso, fingiamo di interessarci ai prezzi della frutta e della verdura esposte nelle bancarelle. Le orecchie indiscrete sono ovunque come gli sguardi di chi tiene d’occhio gli stranieri, soprattutto le donne. Come in ogni dittatura è meglio non fidarsi e evitare di parlare di politica. Ma in fondo tutto è politica, persino denunciare l’aumento dei prezzi del cibo. 

Un’indagine condotta dalla Reuters nel 2011 aveva evidenziato che l’Afghanistan, nonostante fossero passati dieci anni dalla liberazione dai talebani, era ancora il paese più pericoloso al mondo per una donna
Eppure qualcosa di importante era successo: le scuole avevano riaperto le porte alle bambine e alle ragazze, le donne erano tornate a dirigere ospedali, a insegnare all’università, altre come previsto dalla Costituzione del 2004, avevano occupato il 27 per cento dei seggi parlamentari e diretto il Ministero per gli Affari delle Donne. Diverse avevano scelto la strada del giornalismo, condotto telegiornali e programmi tv. Eppure l’Afghanistan è rimasto anche nel ventennio della presenza internazionale nemico delle donne. I progressi hanno coinvolto soltanto una ristretta élite nelle principali città, Kabul, Ghazni, Herat. 

Afghanistan, gli stupefacenti passano da qui

Il ruolo della cultura

Nel luglio 2001, ho conosciuto Mohammad Walid Khan, professore universitario di letteratura afghana, in un piccolo appartamento dove continuava clandestinamente a dare lezione agli studenti dopo che i talebani avevano chiuso il suo corso, giudicato inutile alla formazione dei giovani afghani e la poesia e la letteratura, derive decadenti dei popoli. “Per loro l’unica opera letteraria necessaria e sufficiente è il Corano. Il resto fa solo male alle menti corruttibili dei ragazzi. La Costituzione e le leggi avevano introdotto cambiamenti radicali. La violenza sulle donne è diventata un crimine sulla carta, ma non si è fatto niente per difendere le vittime degli abusi e punire i responsabili.  

“Perché gli uomini non manifestano con le donne? La risposta è facile. Le leggi sono state scritte per accontentare i governi occidentali, per dimostrare il successo del loro intervento e per ostentare la nuova immagine internazionale degli afghani. Le donne hanno conquistato con le unghie e con i denti traguardi  importanti, come l’articolo 22 della Costituzione che stabiliva la parità di genere davanti alla legge. Hanno lavorato molto bene in Parlamento e hanno tenuto testa ai fondamentalisti. Ma pochissimi politici uomini intendevano davvero cambiare lo status quo nei riguardi delle donne, a ben guardare molti non credevano nemmeno nei valori della democrazia vista spesso come un impiccio, un’ingombrante prevaricazione ai metodi tradizionali per risolvere i problemi. Le donne ci hanno creduto, si sono illuse che fossimo pronti ai cambiamenti. 

“I progressi hanno superato la soglia di poche case afghane. Raramente mi è capitato di andare a pranzo dai colleghi, anche quelli più progressisti, e condividere la tavola con le mogli e le figlie. A loro spetta il compito di servire, ma poi si ritirano. Dicono di sentirsi più a loro agio così, ma questa è soltanto una parte della verità”. 
Walid ha ragione. Come straniera, non ho mai avuto problemi nel condividere il cibo con tutte e tutti i membri delle famiglie. Ma se con me c’era anche un solo uomo, allora era tutta un’altra musica: dopo aver deposto le pietanze, le donne uscivano di scena. Per solidarietà, le seguivo. La mia scelta dispiaceva i miei ospiti, li imbarazzava. Ma era la mia piccola protesta pacifica.

“A Kabul ci sono molte palestre, ora poco frequentate perché mancano i soldi. I giovani si dedicano soprattutto al body building. Pensano che i muscoli servano a conquistare le ragazze. Nessuno pensa ad allenare il cervello”

“Le leggi non vanno considerate carta straccia, sono un orizzonte, una luce in fondo ad ogni tunnel buio” prosegue Walid. “Ma non servono a migliorare la nostra vita se manca l’impegno di applicarle, di agire sulla mentalità delle persone. Da noi in realtà non c’è la volontà concreta di costruire una democrazia che rispetti i diritti civili e umani. In questa società patriarcale e conservatrice donne e bambini sono vittime sacrificali su cui sfogare le frustrazioni e l’impotenza maschili. Gli uomini hanno bisogno di esibire la loro virilità.
“Sono oltre quarant’anni che viviamo una guerra fratricida. La peggiore di tutte, perché non si rivolge ad un nemico esterno. Tutti noi siamo potenziali nemici. Troppe generazioni sono cresciute nutrendosi della paura del vicino di casa. Ci siamo abituati a ritenere la violenza una virtù, l’unica che permetta di sopravvivere. Per gli afghani è fondamentale esercitare potere su qualcuno. Esibire i muscoli è una forma di difesa. Compassione e gentilezza diventano un pericolo sociale, una malattia da curare. Un vero uomo non può esprimere emozioni, non può piangere, deve dimostrare di avere sempre il controllo della situazione. Chi è al potere deve fare paura, reprimere le donne è un facile mezzo di propaganda. Il popolo oppresso sfoga poi la violenza in famiglia. Se un uomo non picchia una donna ‘nashizah’, ribelle, disubbidiente, è considerato un debole, un effemminato e per questo sarà deriso e bullizzato. E nessuno vuole esserlo.
“A Kabul ci sono molte palestre, ora poco frequentate perché mancano i soldi. I giovani si dedicano soprattutto al body building. Pensano che i muscoli servano a conquistare le ragazze. Nessuno pensa ad allenare il cervello.
“Per liberare le donne e per far progredire l’Afghanistan serve innanzitutto una pace duratura che estirpi la violenza dalla nostra quotidianità, dalle menti. Per lasciarsi alle spalle il patriarcato servirà poi un lungo lavoro culturale. Io faccio quello che so fare: insegno le poesie e la letteratura, queste sono le mie armi. Ogni forma d’arte è una fiamma di libertà. Per questo è perseguitata dalle dittature. Anche quelle che si celano sotto le sembianze di una democrazia”. 

Il diario dall'Afghanistan

L’Afghanistan, quarant’anni addietro

Quasi mezzo secolo di guerra, di morti, di violenza. Ma prima com’era la vita? 
Asif, il padre di Saddiq, il mio primo interprete afghano, era un signore minuto, elegante e gentile che ogni volta che entrava una donna in una stanza, anche sua moglie, si alzava in piedi in segno di rispetto. Aveva nostalgia dell’Afghanistan in cui regnavano la pace e un re. 

Mohammed Zahir Shah, monarca dal 1933 al 1973, fu spodestato dal colpo di Stato di suo cugino Daoud Khan mentre si trovava in Italia (dove è rimasto in esilio fino al 2002). 
Asif è mancato qualche anno fa dopo aver lavorato per anni al Ministero degli Affari interni per combattere i traffici di droga
“Fino al 1978 nessuno faceva caso a come erano vestite le donne, nessuno si stupiva se andavano all’università, incontravano i ragazzi, se mettevano la minigonna” raccontava quando lo andavo a visitare mentre mi mostrava le foto d’epoca. 

Afghanistan, hub di droghe sintetiche

“I turisti arrivavano a frotte per visitare i siti archeologici o scalare le montagne. Nei villaggi la vita era diversa, ma era una libera scelta delle donne mettere il chador. Con l’arrivo dei sovietici le ragazze in città hanno preferito usare il burqa quando uscivano. Molti soldati ubriachi le importunavano. Ma hanno continuato ad essere libere di decidere come comportarsi. Le cose sono cambiate drasticamente con l’arrivo dei mujaheddin che ci hanno liberato dall’occupazione sovietica, ma hanno introdotto le regole dell’islam integralista nei riguardi delle donne, sostenute anche da Ahmad Shah Massoud, il Leone del Panshir che tutti abbiamo ammirato. Poi è cominciata la guerra civile tra le varie fazioni, Massoud e i suoi alleati da una parte e Gulbuddin Hekmatyar dall’altra. Kabul è stata distrutta e così quel briciolo di libertà che rimaneva alle donne”.

Afghanistan, vent'anni fa la fuga dai bombardamenti Usa

Bashir è un buon amico. É stato mio interprete e compagno in molte avventure afghane. Nel settembre 2021 ero riuscita a far registrare lui e la sua famiglia nella lista della Farnesina per l’accoglienza in Italia. Poi è caduto il governo e la storia è finita lì. 
Lo scorso anno, ha ottenuto dal Canada lo stato di rifugiato, insieme a sua moglie Shabab, al figlioletto Farhan e alla madre. Da tre mesi, dopo molte tribolazioni, sono arrivati a Toronto dove stanno affrontando le difficoltà che toccano ai migranti. Ci sentiamo spesso su WhatsApp.
“Quando lavoravamo al Ministero per gli Affari delle Donne del governo afghano, nessuno di noi uomini ha mai cercato visibilità. Non volevamo togliere spazio a loro, vere protagoniste del cambiamento. Ho capito solo ora che sono in Canada che invece avremmo dovuto esporci di più, potevamo essere d’esempio per altri afghani e sfatare il tabù che lavorare per una donna, lavorare con lei, non è un disonore
“Sono fuggito per motivi di sicurezza. Le intimidazioni erano all’ordine del giorno. Lasciare le proprie radici è doloroso, soprattutto per le donne che come Shabab non parlano inglese o per quelle più anziane come mia madre. É depressa e non c’è giorno che non ci chieda di tornare a casa, anche se sa che non è possibile, soprattutto per il bene di Farhan: qui potrà realizzare i suoi sogni senza temere per la sua vita. Altro sangue sarà versato per liberare l’Afghanistan dai talebani e non è detto che il dopo sarà diverso. 
“Mentre guardavamo la Luna, ieri Shabab mi ha detto: ‘Ti ricordi come era delicata la brezza che scendeva dall’Hindu Kush, una sera come questa, quando ci siamo innamorati?’. Kabul nonostante tutto ci è rimasta nel cuore”.

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