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19 giugno 2025
Il suicidio in carcere di Hamid B., il 19 maggio scorso a Torino, è l’epilogo della “chain of disadvantage”, la catena degli svantaggi. Così la chiama la letteratura psicologica e sociologica: sono una persona ai margini, arrivo da un percorso travagliato di vita, spesso da un progetto migratorio che si è materializzato nel dolore del viaggio e nell’angoscia di una mancata realizzazione delle aspettative nel Paese di arrivo. Il fallimento si fa carne, qualsiasi soluzione precaria di accoglienza non tiene e mi ritrovo allora per strada. E la strada è luogo di relazioni e di fatiche, dove alterno momenti di sollievo e di ripresa a crolli e a crisi improvvise.
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La vita qui è palestra di resilienza, ma è anche costante messa alla prova, esposizione a una continua allerta. L’alcol e le sostanze diventano la naturale protezione a questa costante e brutale esposizione alla realtà, realtà di un progetto di vita che sento naufragare e di un ambiente circostante che mi rimanda esclusivamente rifiuto e opposizione.
La strada sfuma i confini tra legale e illegale, e la voglia di sopravvivere, il bisogno della sostanza, la rabbia per un’ingiustizia che io – a torto o a ragione – sento di patire mi porta a violare la legge e a rendermi colpevole di quelle azioni che, certo, vanno sotto il nome di “microcriminalità”, ma che sommandosi mi fanno rapidamente aprire le porte del carcere.
La strada sfuma i confini tra legale e illegale. Il carcere è un ulteriore tassello di sofferenza e di oppressione, un luogo da cui si esce più induriti – più soli e disperati di prima – e in cui ogni germe di speranza sfiorisce
Il carcere, che nelle dichiarazioni ufficiali dovrebbe essere luogo di rieducazione, rappresenta in realtà un ulteriore tassello di sofferenza e di oppressione, un luogo da cui si esce più induriti e in cui ogni germe di speranza sfiorisce; e quando si esce, lo si fa più soli e disperati di prima.
Per fortuna gli avvenimenti positivi avvengono, ogni tanto si apre uno spiraglio di luce: un’opportunità di lavoro magari precario, ma comunque presente, una sistemazione sotto un tetto, un piccolo amore che ci fa battere il cuore, un incontro che ci fa uscire almeno per un po’ dai soliti giri in cui tutti rischiamo di affondare insieme. Sono occasioni che ci fanno sentire vivi, che riaprono il volto ad un inedito sorriso, che fanno respirare l’aria di un miglioramento potenziale e per un po’ non ci fanno sentire di essere “un problema con le gambe”.
Ma la catena sopra citata scorre, e così al sole si avvicenda il buio: un carico pendente che diventa una condanna definitiva, un’opportunità di lavoro sfumata, una relazione che si rompe, un controllo della polizia, un ritorno ai soliti giri. E così i polmoni che si stavano dilatando per la nuova possibilità di respiro si costringono immediatamente, i due passi avanti percorsi si dileguano e si spalanca un'inevitabile discesa agli inferi. Un fatalista parlerebbe di un destino avverso che ci si accanisce contro, un moralista ci vedrebbe esclusivamente il frutto e la giusta conseguenza di una scelta comportamentale sbagliata. Fatto sta che si incarna pienamente una profezia negativa che si autoavvera, e i problemi, le oppressioni e la disperazione finiscono per accumularsi e pesare su ogni vita.
Certa politica rinfocola la narrazione che da millenni ha nutrito la difesa del potere, il meccanismo del capro espiatorio: “Se state male, e voi state male, è colpa sua!”
E il mondo intorno che fa? È pervaso da un’ansia generalizzata, da un’insoddisfazione pervasiva, da una frustrazione sociale. E la politica – certa politica, sia chiaro – rinfocola la narrazione che da millenni ha nutrito la difesa del potere, il meccanismo del capro espiatorio: “Se state male, e voi state male, è colpa sua!”.
E il dito puntato è contro l’ultimo, lo straniero, la persona ai margini. Quindi fiato alle trombe della sicurezza, una dichiarazione parossistica di protezione che si traduce in realtà in una moltiplicazione di strumenti oppressivi e persecutori. Si delineano le “zone rosse” di presidio speciale, si manda l’esercito in punti strategici della città, si decretano misure straordinarie nella cifra dell’ordine pubblico e del populismo penale.
Allora la catena non può che annerirsi: se già la vita delle persone in strada era profondamente segnata da una precarietà evolutiva e da troppe occasioni di rottura, questo accanimento persecutorio non può che far crollare ogni possibilità. Non si possono più costruire occasioni, si deve punire, carcerare, deportare. L’incupirsi del clima sociale porta queste persone a marginalizzarsi e a isolarsi sempre di più, sganciandosi anche dalla rete dei servizi di supporto e quindi candidandosi ad aggravare la loro situazione sanitaria, legale e di uso di sostanze (più angoscia e quindi più consumo), rendendosi più pericolosi per se stessi e per gli altri.
E il territorio beneficia di queste soluzioni? Dopo una luna di miele iniziale si constata amaramente che nulla è cambiato, che questa esibizione di muscoli non ha risolto niente e non è con una camionetta dell’esercito o con l’elicottero che sorvola sul quartiere che si riqualifica uno spazio, generando più benessere sociale. È tutto riassunto nelle parole di un passante con il cane al guinzaglio, che assisteva vicino a me a un controllo di documenti da parte di operatori delle forze dell’ordine a un giovane maghrebino, una decina di metri più in là in una piazza del quartiere torinese di Barriera di Milano: “Cercavano nemici, hanno trovato poveracci”.
E tutto questo ha un costo in vite umane. Hamid B. era un giovane originario del Marocco che aveva conosciuto la vita di strada. Conosceva il buio, la durezza delle dinamiche di strada, il crack, la fatica quotidiana di vivere senza documenti di soggiorno, il carcere. Ma non tutto era oscurità: nei racconti delle persone che lo hanno conosciuto era tranquillo e amichevole, spesso mediava i conflitti che si generavano nell'esasperata vita ai margini. Agli operatori del Drop In del Gruppo Abele, che lo hanno conosciuto e accompagnato quando viveva sotto il portico della loro sede di via Pacini a Torino e che ora mi stanno raccontando la sua storia con il dolore di aver perso un amico e di essere stati testimoni di un'ennesima ingiustizia, aveva anche chiesto di prendere contatto con il Servizio per le dipendenze per affrontare il suo rapporto problematico con il crack, una domanda che aveva vinto la naturale vergogna che provava per questo tema.
Anche con Hamid la catena degli svantaggi ha avuto un’accelerazione spietata: dal carcere di Torino al cpr di Brindisi e poi nel centro di Gjadër in Albania perché privo del permesso di soggiorno, testimonial involontario e sofferente della retorica securitaria del governo italiano
C’era un’oscurità che lo attraversava e una fragilità di fondo che rendeva ogni evoluzione difficile, ma tutto questo non copriva le risorse di cui era portatore e la voglia di farcela, di riprendere da solo il filo della sua vita. Ma anche con lui la catena degli svantaggi ha avuto un’accelerazione spietata: dal carcere di Torino al centro di permanenza per i rimpatri (cpr) di Brindisi e poi trasferito per alcune settimane nel centro diGjadër in Albania perchè privo del permesso di soggiorno, testimonial involontario e sofferente della retorica securitaria del governo italiano. Rientrato in Italia dopo che il giudice di pace di Roma aveva sospeso il trattenimento in attesa della pronuncia della Corte costituzionale sulla legittimità delle detenzioni in Albania, era tornato a Torino. Ma qui le cose sono precipitate, e in un confuso sabato di esasperazione e rabbia, per un torto e un furto subito, Hamid è stato di nuovo arrestato per resistenza e violenza a pubblico ufficiale. E qui, per tutto e niente, per mille cause e nessuna, per il peso dell'ennesima caduta e la paura del ritorno nel cpr, la catena non ha retto e si è spezzata. Hamid si è impiccato in cella nella notte: dolore, silenzio, fine di una vita.
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Di fronte a questo fatto non possiamo che fare un passo indietro, con la dovuta considerazione nei confronti di un gesto estremo e con il dolore di assistere impotenti ad un epilogo drammatico. Al di là della scelta e necessità che si porta dietro un evento di questo tipo, verso cui non possiamo che riservare rispetto, tante domande e riflessioni emergono, amari apprendimenti di questo passaggio di vita.
Il primo sguardo va al territorio, al quartiere torinese di Barriera di Milano che il giovane ha percorso in questi anni. Non è l’istituzione della zona rossa, il presidio securitario e l’accelerazione repressiva la risposta ai bisogni e alle domande di questa comunità, di tutti i suoi abitanti; la sicurezza come fredda legalità, senza supporto sociale, diventa repressione e crea ulteriore ingiustizia, altre sofferenze. Non è con i muscoli che la situazione evolve, è con processi di supporto al territorio, sviluppando politiche socializzanti, formative, lavorative, integrative: “La sicurezza di un quartiere sono le relazioni tra le persone”, si legge in un graffito su un muro vicino a via Pacini.
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Mai come nella questione della sicurezza vera, non quella sbandierata dai sostenitori delle legge e dell’ordine, ma quella che si sperimenta nelle mille esperienze di valore di questo quartiere così come in mille realtà del Paese, è necessario coniugare un discorso pragmatico e valoriale: la sicurezza radica dove si creano occasioni per tutte le persone e si persegue una prospettiva di giustizia sociale. Le realtà di accoglienza e di bassa soglia, a partire dall'unità di operatori di strada che ha accompagnato il percorso di vita di Hamid sino al suo tragico epilogo, nel loro essere spazio di aiuto, relazione e restituzione di dignità rappresentano degli essenziali agenti di sicurezza, quella vera, quella umana.
Questo episodio interroga anche il carcere e il suo ruolo. I numeri sono terribili: l'associazione Antigone, che da tempo si dedica alla tutela dei diritti delle persone detenute, ci riporta che la somma dei suicidi in carcere avvenuti nel 2024 e quelli tra gennaio e maggio 2025 sono 124. È necessario interrogarsi affinché la detenzione non rappresenti un buco nero di disperazione, ma possa aprire a nuove opportunità, come vorrebbe il dettato costituzionale. Anche qui le buone pratiche ci sono (Hamid stesso aveva incontrato gli operatori durante il periodo di detenzione e insieme era nata la volontà di affrontare il suo problema di dipendenza), gli sforzi e il valore delle iniziative dei singoli e degli operatori non vanno dimenticate, ma spesso fanno fatica ad attecchire su uno sfondo culturale che vuole il carcere come luogo esclusivo di punizione e di oppressione.
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L’ultimo appello, che spero abbia innervato tutte queste righe, è alla società nel suo complesso, affinché si liberi di retoriche semplificanti e mortifere, che vedono nelle persone ai margini dei “problemi con le gambe” e delle minacce da allontanare, e ritornino ad uno sguardo umanizzante. Questa virata securitaria non potrà che generare angosce, paure e alimentare l'ingiustizia sociale: spetta a ognuno di noi dotarci della consapevolezza necessaria per affrontare criticamente e contrastare questa deriva repressiva. Lo dobbiamo ad Hamid, lo dobbiamo all'impegno di Joana, Silvia, Fred e tutti gli operatori sociali che quotidianamente lavorano nella strada, lo dobbiamo a noi stessi.
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