2 agosto 2024
Senza risparmiarci dettagli raccapriccianti, una voce narrante lirica, misurata e coinvolta ci racconta di una strada di fango giallo persa in una Cina sciagurata smarrita nel tempo. La strada è un’estesa periferia orizzontale, immobile tentacolo malato di un’incontrollata urbanizzazione in cui le persone adottano comportamenti irragionevoli, abbandonandosi spesso al sonno e al sospetto. Le loro capacità cognitive e disposizioni affettive sembrano compromesse, come l’ambiente che le circonda: lungo la strada di fango giallo si vive immersi in un’aria umida ed escrementizia fatta di miseria fisica e morale. Chi può vende ai passanti frutta marcia, e anche i cittadini marciscono, o meglio macerano nel proprio stesso sudore: usano infatti vestirsi con abiti pesanti nonostante il gran caldo, convinti così di potersi salvare dalle malattie.
È questa, grossomodo, l’aria che si respira ne La strada di fango giallo, romanzo pubblicato in Cina nel 1987 e oggi portato in Italia da Utopia nella traduzione di Maria Rita Masci, a firma dall’autrice cinese Can Xue (pseudonimo di Deng Xiaohua).
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Nessuno si fa scrupolo di gettare i rifiuti, organici e non, dove capita. Dal cielo, un cielo sempre grigio che scherma un debole sole, piove cenere. E da qualche parte si erge una fabbrica di palle d’acciaio dagli antichi fasti, ora ridotta a ricettacolo inselvatichito di mondezza. Il mondo vegetale, fungino e animale, grazie anche a repellenti patologie suppurative che colpiscono chiunque, pare volersi riprendere il suo spazio: “La strada di fango giallo sembrava un grosso straccio sporco pieno di buchi neri dai quali uscivano un vapore unto e fetido e una miriade di mosche dalla testa verde e zanzare velenose dalle zampe colorate”. Dovunque emergono imprecisati timori, e a un certo punto qualcuno pronuncia con insistenza la parola “complotto”. Fin quando è un’altra la parola che emerge con forza: “dislocamento”. Sembra infatti che le autorità vogliano spostare altrove gli abitanti della strada.
Nella strada di fango giallo si palesano i fallimenti della Rivoluzione culturale, in una Cina sofferente per l’indiscriminata violenza istituzionale e per il passaggio dalla ruralità a una malsana urbanizzazione
È forse un sogno, questo? Un sogno tanto grottesco che nemmeno riesce a farsi incubo, se non in una bizzarra versione caricaturale che tramuta l’orrore in riso e ribrezzo? Forse sì, ed è la stessa voce narrante a porsi la domanda: “Ah, strada di fango giallo, strada di fango giallo, forse esisti solo nei miei sogni? Forse sei solo un’ombra, una leggera tristezza che vibra nell’aria?”. Sogno o non sogno, incubo grottesco o meno, è qui che prende concretezza il declino, che si palesano i fallimenti della Rivoluzione culturale, in un Paese sofferente per l’indiscriminata violenza istituzionale e per il passaggio dalla ruralità a una malsana urbanizzazione a cui fa da sfondo la fatica della macchina statale, con il manierismo nostalgico dei funzionari e l’incapacità degli stolidi amministratori di far fronte alle esigenze di un popolo misero e inebetito.
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Nata nel 1953 a Changsha, città capoluogo della provincia centro meridionale dell’Hunan che oggi conta oltre sette milioni di abitanti, Can Xue si porta dietro una storia biografica che in parte potrebbe sembrare un compendio della Cina degli ultimi settant’anni: figlia del caporedattore di un quotidiano dell’Hunan finito sotto la lente della campagna anti-destra di Mao alla fine degli anni Cinquanta per sospetti antirivoluzionari, vive un’infanzia di privazioni morali e materiali, durante la quale i genitori vengono spesso trasferiti in campi di lavoro e prigioni per più o meno lunghi periodi di rieducazione.
Quella di Can Xue è una carriera letteraria di rottura rispetto ai canoni cinesi del suo tempo: un modo di fare narrativa che unisce una ricca dimensione psicologica e una decisa intenzione politica di critica sociale
Toccata da un precario stato di salute, a quattordici anni viene lasciata alle cure di una sorella maggiore. Nella fase adulta della sua vita, Can Xue pratica diversi mestieri: medico scalzo (figura della Cina rurale con una minima infarinatura sanitaria a cui venivano assegnate mansioni di cura e profilassi nei più remoti villaggi), operaia e supplente di scuola, fin quando mette su famiglia e apre, con il marito, un laboratorio di sartoria. Nel frattempo si appassiona alla letteratura, approfondendo tra l’altro lo studio dell’opera di autori europei come Kafka, Beckett e Ionesco, da cui apprende a frequentare i lidi dell’assurdo, dell’incomunicabilità e del surrealismo (ben lontani dalle direttive del partito sulle questioni letterarie), ponendo inoltre grande attenzione alla forma narrativo-espressiva piuttosto che al contenuto narrato ed espresso (altra cosa assai distante dalle direttive delle gerenze nazionali, inclini invece alla concretezza della sostanza). Così, negli anni Ottanta, con la Rivoluzione culturale che è ormai passato e le riforme di apertura al capitalismo di Deng Xiaoping che ancora devono deflagrare a piazza Tienanmen, Can Xue comincia a pubblicare le sue opere, dando il via a una carriera letteraria di rottura rispetto ai canoni cinesi del suo tempo che la porterà a emergere prima in Cina e poi in tutto il mondo.
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Attualmente considerata autrice di spicco della letteratura asiatica contemporanea, Can Xue è infatti unanimemente descritta come una delle principali testimoni dell’avanguardia modernista cinese degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, tanto che nei più recenti anni Duemila è stata candidata a prestigiosi premi internazionali come il Neustadt Prize e l’International Booker Prize, mentre nel 2023 stata addirittura in odore di Nobel. Tutto questo grazie a un modo di fare narrativa onirico, grottesco, visionario, misurato ma comunque duro e spietato, che riesce a tenere vive al suo interno una ricca dimensione psicologica, talvolta densa di un simbolismo inaccessibile, e una decisa intenzione politica votata alla critica sociale. Perché a ben vedere, al di sotto dell’inafferrabile (non) trama sconclusionata e irragionevole su cui si sviluppa La strada di fango giallo, c’è forse proprio questo.
Il romanzo, nell’insistere sulla dimensione irrazionale in cui versano i cittadini della strada di fango giallo, sembra porsi come un vero e proprio manifesto contro il realismo socialista che imperava nella Cina letteraria in cui l’autrice era cresciuta: nessun eroismo popolare, nessuna rappresentazione enfatica della realtà, né alcuna sua mendace esaltazione. In tal senso, possiamo forse dire che l’insistenza di Can Xue sull’evanescenza degli oggetti e sullo psichismo incontinente dei suoi soggetti rappresenti di per sé una dichiarazione anti-materialista, come se negli spazi delle narrazioni dell’autrice un complesso sovrastrutturale imbizzarrito diffondesse dovunque confusione, prendendosi la sua rivincita sulla struttura grazie a un’insolita alleanza con una strabordante emotività (l’emotività dell’io, questo mostro borghese). E, allo stesso modo, il sogno in cui sono immersi i personaggi sembra volersi fare latore dello stato letargico cui viene costretto un popolo obbligato a non pensare e a subire le più o meno consapevoli decisioni del potere.
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La strada di fango giallo potrebbe allora essere considerato anche come un romanzo politico, sotto le sembianze di una misurata distopia dalla prosa spesso lirica. Perché i riferimenti diretti ed esasperati alla sua contemporaneità non sono invero tanto nascosti né sporadici, come la domanda spesso ripetuta dagli amministratori (spaesati, presi alla sprovvista dalla storia e incapaci di far fronte alla situazione in cui versa la strada di fango giallo) che più volte riecheggia nelle pagine del libro: “Vogliamo mantenere la tradizione delle vecchie basi rivoluzionarie?”. Una domanda a cui nessuno risponde, perché la risposta probabilmente è già nell’aria.
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