Tijuana, Messico. Il muro che segna il confine con gli Stati Uniti (Barbara Zandoval/Unsplash)
Tijuana, Messico. Il muro che segna il confine con gli Stati Uniti (Barbara Zandoval/Unsplash)

Capitalismo di frontiera, droga e violenza sul confine Messico-Usa

Nel libro Capitalismo gore, l'autrice transfemminista Sayak Valencia descrive il fallimento della politica nel suo Paese, che ha portato alla nascita di una narco-nazione e alla normalizzazione della criminalità

Livio Santoro

Livio Santoroscrittore

13 ottobre 2023

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Macelleria messicana” è una locuzione in uso nel giornalismo italiano da circa 80 anni. Come noto, intende designare eventi di particolare efferatezza, fatti di sangue in cui i carnefici straziano con brutalità i corpi delle vittime, guidati dalla vendetta o dal godimento della violenza in sé. Coniata probabilmente da Ferruccio Parri per descrivere l’accanimento della folla contro i corpi di Mussolini, Petacci e dei gerarchi fascisti in piazzale Loreto nel 1945, l’espressione traeva ispirazione dalla violenza indiscriminata attribuita alle bande di rivoltosi del Messico rivoluzionario. 

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Una violenza che ancora oggi sembra strutturare, seppure in altro modo, una società funestata da numerosi affari illeciti, su tutti quello della droga. Ormai da decenni, infatti, il Paese vive una guerra intestina che vede potentissimi narcos scontrarsi con i propri bracci armati, le cosiddette pandillas, molto spesso in combutta con strati conniventi di politica e forze dell’ordine. Un’aria di violenza totale ormai normalizzata che aleggia entro ma in primo luogo sopra i confini del Paese, o meglio a ridosso degli stessi. È infatti sulla frontiera Messico-Usa che ci si spende più che altrove in pratiche violente, in particolar modo nelle città più popolose degli stati del Chihuahua e della Baja California: Ciudad Juárez e Tijuana, dirimpettaie di El Paso (Texas) e San Diego (California). 

Il Messico vive una guerra intestina che vede potentissimi narcos scontrarsi con i propri bracci armati, le cosiddette pandillas, molto spesso in combutta con strati conniventi di politica e forze dell’ordine

È proprio lì che operano con più ardore i cartelli della droga, data la vicinanza del mercato Usa: una promessa di prosperità per chi punta sui consumatori occidentali, ovvero i principali fruitori dell’industria latinoamericana degli stupefacenti. Una promessa di prosperità che viene però esaudita solo a furia di atroci ammazzamenti tra narcos, ma non solo, esempio ne sia la lunghissima sequenza di femminicidi che ormai da tempo caratterizza il Paese.

Capitalismo gore di Sayak Valencia

Per connotare il feroce stato in cui versa il Messico in special modo sulla frontiera, la studiosa transfemminista Sayak Valencia, nata a Tijuana, ha coniato il concetto di capitalismo gore, sulla cui declinazione si spende nell’omonimo libro del 2010, ora pubblicato in Italia da NERO nella traduzione di Anna Boccuti. Mutuando il termine gore dal lessico del cinema, in cui nasce per identificare un genere di pellicole con scene assai cruente, Valencia intende dar conto di un fenomeno che a suo parere travalica i confini dell’economia illecita per innestarsi in maniera organica nel quadro generale del sistema economico capitalistico mondiale

Narcotraffico, il nemico corre veloce

La violenza che abita il confine Messico-Usa non sarebbe altro, secondo Valencia, che un’esternalità negativa dovuta alle leggi di mercato, il “lato B” dellaglobalizzazione, “che ne smaschera le conseguenze”: lo scotto che il Terzo mondo (così lo chiama la studiosa) deve pagare per partecipare al banchetto del liberismo. In tal senso, l’autrice opera un libero ragionamento che, accantonando talvolta il rigore speculativo in favore di esigenze dimostrative, segue alcune conclusioni a catena. Si parte dalla constatazione che la violenza, il cui utilizzo legittimo dovrebbe essere appannaggio esclusivo dello Stato, sia necessaria al potere affinché il sistema economico faccia il suo corso. 

La violenza che abita il confine Messico-Usa non sarebbe altro, secondo Valencia, che un’esternalità negativa dovuta alle leggi di mercato

Nello sviluppo del neo-liberismo, però, lo Stato-nazione avrebbe fallito come entità e concetto, soppiantato della globalizzazione, “una politica interstatale mondiale che cancella le frontiere economiche rinforzando al contempo le frontiere interne e intensificando i sistemi di sorveglianza”. A loro volta, globalizzazione e crollo dello Stato-nazione avrebbero portato nel Primo mondo all’emergere del “mercato-nazione”, in cui ogni cosa (nomi, marchi, concetti etc.) diventa merce. 

Nel Terzo Mondo, invece, nella fattispecie in Messico, avrebbero portato all’emergere della “narco-nazione”, “uno Stato alternativo iperconsumista e violento” in cui anche i corpi sono merce. Come nel Primo, infatti, anche nel Terzo mondo si impongono alle persone desideri consumistici, pur non essendoci reddito sufficiente a soddisfarli a causa dello sfruttamento e del precariato nel mondo del lavoro: ecco che si generano le “pratiche gore” del capitalismo di frontiera, rivolte proprio alla soddisfazione delle esigenze imposte dal sistema economico-culturale vigente. 

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Lo Stato, in quest’ordine di idee, non ha più il monopolio dell’utilizzo legittimo della violenza: con esso, lo hanno anche le organizzazioni criminali che si contendono i mercati illeciti. “Potremmo dire – sostiene Valencia – che dalla fine degli anni Settanta lo Stato messicano non può più essere concepito come tale, ma come una rete di corruzione politica che ha seguito gli ordini del narcotraffico nella gestione del paese; un amalgama narco-politico che si è radicalizzato”.

Malavitosi endriagos: la specializzazione professionale dei carnefici

Qui entrano in gioco gli endriagos, ossia soggetti inizialmente subalterni che, secondo la studiosa, si fanno portatori della violenza necessaria al capitalismo quando si fa gore, specializzandosi nelle competenze utili a emergere nel contesto e a garantirsi un’efficace dotazione di potere. Sono soggetti che prendono il nome da personaggi letterari ispanici: “L’endriago – spiega Valencia in un’intervista – è un mostro medievale con due caratteristiche principali: abita un territorio desolato, agreste, totalmente anomalo, ed è […] dotato di forza brutale che esercita la violenza in modo esplicito e feroce. Gli endriagos combinano la dimensione coloniale dello sterminio con la costruzione di feroci capri espiatori per giustificare la conquista coloniale”. Come esempio, Valencia evoca il gruppo armato Los Zetas, composto da ex militari dell’esercito al soldo del Cartello del Golfo che agiscono violenza con perfidia e sensazionalismo: decapitano le vittime, filmano l’atto e caricano i video online. 

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La violenza, già sdoganata nell’industria televisiva, cinematografica e dei videogiochi, si adatta così ancora una volta alle dinamiche della spettacolarizzazione, che contribuiscono in larga parte a renderla lecita perché sfruttano la dimensione del riconoscimento identitario di chi altrimenti sarebbe estromesso dal sistema economico-culturale: “La trasformazione in idoli di uno o più criminali (soprattutto maschi) e la creazione di una cultura pop del crimine organizzato derivano dall’intenzione dei diseredati e della società in generale di cercare un’affiliazione identitaria”. 

“La trasformazione in idoli di uno o più criminali (soprattutto maschi) e la creazione di una cultura pop del crimine organizzato derivano dall’intenzione dei diseredati e della società in generale di cercare un’affiliazione identitaria”

E ancora: “Gli endriagos fanno della violenza estrema uno stile di vita, di lavoro, di socializzazione e di cultura. Riconvertono la cultura del lavoro in una sorta di protestantesimo distopico nel quale lavoro e vita formano un’unica unità, ma sono reinterpretate soppiantando la divinità […] con il denaro”. Assistiamo in sostanza alla “creazione di un patrimonio culturale che attraverso il valore simbolico conferisce legittimità alla criminalità organizzata e genera una narrazione che le permette di agire sulla realtà sociale ed etica e di riconfigurarla con il sostegno popolare”.

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A testimonianza di questa normalizzazione della criminalità, ci sarebbero anche delle vere e proprie offerte di lavoro affidate dai narcos a manifesti appesi in strada, sui ponti o in altre zone urbane ad alta visibilità (i “narco-striscioni”, in spagnolo narcomantas), oppure a messaggi diffusi da radio pirata, come questo: “Si invitano tutti i cittadini che hanno prestato servizio e ricevuto il grado di kaibil [soldato d’élite] a garantire la sicurezza dei veicoli che trasportano merci in Messico. 

"Offriamo opportunità di avanzamento”

Ne viene, continua Valencia, “una ri-significazione distopica che converte le tecniche di iper-specializzazione della violenza non solo in un lavoro normale, ma anche in un lavoro desiderabile, che offre ‘opportunità di avanzamento’ di fronte alla precarietà lavorativa globale”. In altri termini, i mercati illeciti sono parte integrante del capitalismo, e che chi vi lavora deve specializzarsi a dovere per soddisfare i propri desideri iperconsumistici.

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Per quanto il discorso di Valencia si avvicini talvolta alla forma del manifesto prescrittivo allontanandosi da quella del saggio (ancorché narrativo), in particolare nelle modalità forse un po’ svelte con cui promuove il transfemminismo a un ruolo chiave nella lotta alla violenza capitalistica (che è impensabile senza mascolinità egemonica), ci sembra indubbio il valore didascalico del suo concetto di capitalismo gore, così come l’appropriatezza della conclusione per cui la violenza, nel sistema economico attuale, è spesso una competenza per specialisti, necessaria per raggiungere quanto è socialmente considerato desiderabile, nel Primo come nel Terzo mondo. 
In tal senso, il discorso di Sayak Valencia non si esaurisce sulla frontiera Massico-Usa, ma può dirsi globale, per quanto strettamente legato alle dimensioni locali. Più che di macelleria messicana, allora, potremmo forse parlare di macelleria capitalistica.

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