Beppe Franzo sotto la curva della tifoseria juventina (Foto da Instagram)
Beppe Franzo sotto la curva della tifoseria juventina (Foto da Instagram)

L'ex ultras della Juventus Beppe Franzo: "Ho nostalgia per l'entusiasmo di un tempo"

Le sciarpate, i fumogeni, lo spirito spontaneo. Negli anni '80 Beppe Franzo faceva parte degli Indians, gruppo di ultras della Juventus. Sente la curva come la sua seconda casa, ma non ama il calcio moderno che ha cambiato la maniera di frequentare gli stadi

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

11 settembre 2024

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Dalla fine degli anni Settanta in poi, per anni ha animato le curve per sostenere la Juventus, a Torino e in trasferta. Adesso, anche senza appartenere a uno dei gruppi della curva sud dello “stadium”, Beppe Franzo è una delle voci più rappresentative degli ultras bianconeri. Se prima era uno degli Indians, con simpatie per la destra e protagonista di qualche tafferuglio, da alcuni anni Franzo si impegna a raccogliere, conservare e trasmettere le memorie del tifo juventino. Lo fa con l’associazione chiamata Quelli di via Filadelfia 88, dall’indirizzo del punto di ritrovo vicino al vecchio stadio comunale, associazione con cui vuole anche promuovere il ricordo dei 39 tifosi morti nell’incidente allo stadio Heysel di Bruxelles il 29 maggio 1985. E lo fa con alcuni libri, come Indians, pubblicato a fine 2023. Tuttavia, la sua opera di mediazione gli è costata il coinvolgimento nel processo Last Banner e una condanna in appello a 3 anni e 11 mesi perché ritenuto dai giudici l’intermediario delle richieste “estorsive” dei gruppi ultras al club bianconero.

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Beppe Franzo, cosa è cambiato nel mondo degli ultras negli ultimi anni?

L’assenza di prospettive antagoniste tra i giovani, assuefatti da un mondo virtuale, fa sì che lo stadio appaia come uno dei pochi spazi di aggregazione comunitaria che fuoriesce dagli steccati di una omologazione sempre più imperante. È un miraggio libertario, in quanto ogni comportamento astrattamente ritenuto non accettabile viene punito con il Daspo (Divieto di accesso alle manifestazioni sportive, ndr), strumento a mio avviso antitetico alle libertà democratiche.

Le indagini alla base di questa misura sono sempre più spesso fondate su un giudizio di pericolosità presunta e non concreta e il vaglio viene demandato all’autorità giudiziaria si limita ad approvarla senza valutarne gli effettivi presupposti. L’esasperata quantità di Daspo emessi, molti dei quali in assenza di una pericolosità concreta, fa apparire il fenomeno ultras come uno dei principali problemi del nostro paese. Di fatto, analizzando il grafico inerente agli scontri tra opposte tifoserie e la violenza negli stadi nei campionati maggiori, ci si accorge di come tali eventi siano drasticamente diminuiti. L’ultras, insensibile a tutto ciò, continua a vivere in un suo mondo parallelo, fatto di miti, simboli, idee-forza.

Ultras, il "dodicesimo uomo"

Gli adolescenti sono ancora attratti dai gruppi ultras?

"Il calcio moderno, esasperato dal business, trasforma il tifoso in cliente, uccidendo la passione. L’ultras è, nonostante le tante interpretazioni del fenomeno, la parte più calda e passionale del tifo"

Rispetto agli anni Ottanta del secolo scorso, che costituiscono il decennio di massima espansione del fenomeno, e agli anni Novanta, in cui la logica del gruppo raggiunge il suo apice, oserei dire che gli adolescenti ne sono attratti in maniera decisamente meno marcata. Il calcio moderno, esasperato dal business, trasforma il tifoso in cliente, uccidendo la passione. L’ultras è, nonostante le tante interpretazioni del fenomeno, la parte più calda e passionale del tifo. Le politiche di continuo aumento dei prezzi dei biglietti nei settori popolari, sanciscono l’allontanamento dei giovani dagli stadi, venendo a mancare il cambio generazionale. Oltre a ciò ci sono troppe normative che impongono tessere nominative per l’acquisto dei tagliandi, imposizioni per l’introduzione di banner, tamburi, megafoni e aste delle bandiere. In poche parole, un sistema che regolamenta e disciplina i comportamenti, ma che uccide la passione e soffoca la creatività.

Cosa voleva dire essere un ultras negli anni Ottanta e Novanta?

"Molti giovani trovavano l’alternativa al sistema nelle gradinate degli stadi. Le curve diventano dei veri laboratori sociali interclassisti, dove affiora una nuova mentalità"

Sono entrato a far parte di quel mondo sul finire degli anni Settanta, che rappresentano l’embrione del fenomeno ultras. Gli anni Ottanta, come già accennato, ne hanno rappresentato la sua massima evoluzione. In quegli anni la società e soprattutto i giovani, avevano valori differenti: la politica e la volontà di rendersi protagonisti del proprio vivere. I giovani concepirono l’esistenza secondo una logica comunitaria dove assumeva un valore rilevante “fare gruppo”, l’opposto dell’attuale individualismo. Molti giovani trovavano l’alternativa al sistema nelle gradinate degli stadi. Le curve diventano dei veri laboratori sociali interclassisti, dove affiora una nuova mentalità: quella degli ultras, che coniugano impegno politico, ansia di ribellione, voglia di diventare i protagonisti delle domeniche pallonare. In precisi contesti, la fede si coniuga con l’appartenenza alla propria città o regione.

Andare in trasferta era un’impresa perché i mezzi di trasporto erano quelli che erano e l’arrivo in un’altra città avveniva senza cordoni di polizia attorno. L’odio verso la squadra avversaria si canalizzava contro i suoi tifosi giunti in trasferta, dando vita a scontri cruenti. Un codice di guerra con regole non scritte che prevedevano che non si toccassero donne, anziani e bambini.

Negli anni Novanta le balconate subirono una nuova evoluzione-involuzione, con il gruppo di appartenenza che diventa più emblematico e rappresentativo della stessa squadra, prendendo piede la logica degli scontri ultras-polizia, spesso più preponderanti di quelli tra opposte tifoserie. La vendita dei gadget e del merchandising griffato del proprio gruppo prende il sopravvento e se le polisportive e i club calcistici si trasformano in società per azioni, sugli spalti di molti stadi gli stessi ultras sembrano abbracciare una logica identica.

Come si arrivava ai vertici di un gruppo ultras?

"Provo tanta nostalgia per le sciarpate oceaniche, le nubi di fumo create dalle torce e dal fumo dei fumogeni: meno effetti 3D ma tanto, tantissimo entusiasmo"

Per meritocrazia, carisma e innata capacità decisionale e di comando. Oltre a ciò, il continuo sacrificio dedicato all’organizzazione del proprio gruppo e alle attività promosse dallo stesso, quali le trasferte e la creazione delle coreografie. L’apparato coreografico del tifo era sicuramente meno ad effetto rispetto a quello odierno, ma a mio avviso più spontaneo.

Oggi siamo alla cura maniacale della coreografia, dove ogni spettatore riveste minuziosamente il suo ruolo. Senza rendersene conto si replicano quelle manifestazioni folkloristiche in uso presso quegli stati o regimi, come quello cinese ad esempio, dove l’uomo diventa un semplice ingranaggio, una parte del tutto. Provo tanta nostalgia per le sciarpate oceaniche, le nubi di fumo create dalle torce e dal fumo dei fumogeni: meno effetti 3D ma tanto, tantissimo entusiasmo.

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C’è stato un momento in cui hai capito che era il momento di smettere di essere un ultras?

Avevamo un motto, come gruppo, in quei primi anni Ottanta: “Chi è stato Indians (il nostro nome di allora), lo rimarrà tutta la vita”. È vero, in quanto anche se tanta acqua è passata sotto i ponti, se le vicissitudini belle e brutte hanno fatto di noi delle altre persone, ci trova e ci si vede ancora.

Le traversie della mia vita, ovvero un papà gravemente ammalato e la crescita della mia famiglia mi hanno strappato all’ambiente ultras. Appena mi è stato possibile sono ritornato a tempo pieno in quella curva che è stata e sarà sempre, almeno idealmente, la mia seconda casa. Un amore passionale che mi ha invogliato a rivestire un ruolo (quello di “intermediario” tra la società e i gruppi della curva, ndr), richiesto dalla stessa società Juventus, poi ripagato con un assurdo Daspo di 5 anni e una condanna penale non ancora definitiva.

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Gli ultras hanno ancora un'importanza oggi in uno stadio?

Dipende essenzialmente di quale stadio e città vogliamo parlare. Se si tratta di stadi di proprietà come quello della Juventus di Torino, il loro destino è ormai segnato. Il calcio moderno prevede spazi dove da luoghi generativi di identità, emozioni ed esperienze, non ci si concentri solo più sull’evento agonistico, ma investa tutta una serie di esperienze ambientali tali da sentirsi parte di uno show. In esso trovano spazio giochi di illuminazione, suoni irradiati dagli impianti audio dello stadio, l’intrattenimento dj prima del fischio iniziale. Come direbbe qualcuno: the show must go on.

Avresti mai immaginato che a Torino, Milano o Roma criminalità organizzata e gruppi ultras  potessero intrecciarsi?

Per quanto riguarda Torino, onestamente, non sono al corrente di intrecci tra gruppi ultras e criminalità organizzata in entrambe le tifoserie. Se ti riferisci a quanto emerso nel processo Alto Piemonte, nonostante i tanti articoli apparsi sul coinvolgimento ultras con l’ndrangheta, posso solo dire che nessun ultras figura nel processo come parte in causa e anzi l’unico tifoso imputato in quel processo è stato assolto in Cassazione. Prendendo coscienza degli atti processuali, ho acquisito una percezione della vicenda differente rispetto a quella divulgata. Su quanto avviene a Milano e a Roma non mi sento di poter fare considerazioni in merito perché non sono a conoscenza diretta dei fatti. Posso solo dire che non è scontato che un ultras debba necessariamente essere un criminale.

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