6 ottobre 2024
Dagli attacchi terroristici di Hamas in Israele è trascorso un anno. Gaza è stata rasa al suolo e Netanyahu ha messo nel mirino il Libano. L'attacco dell'Iran in diverse città israeliane rischia però di cambiare ulteriormente i confini della guerra in Medio Oriente. A lavialibera la giornalista e blogger Paola Caridi, da oltre vent'anni vicina alle questioni mediorientali e nordafricane, spiega gli obiettivi della destra israeliana e i possibili scenari futuri.
"Erano anni che Netanyahu cercava di far arrivare al confronto diretto gli Stati Uniti e l’Iran"
Caridi, è passato un anno dal 7 ottobre. Cosa è diventato il conflitto?
Dipende di quale conflitto parliamo: della questione israelo palestinese, della dimensione regionale o di quello che era l’obiettivo non solo di Nethanyau ma di molti governi israeliani, ossia scatenare un conflitto con l’Iran. Quest’ultimo è in parte legato alla questione israelo-palestinese ma va oltre le crisi “subregionali”. Erano anni che Netanyahu cercava di far arrivare al confronto diretto gli Stati Uniti e l’Iran.
Quindi il governo di Israele auspicava da tempo un’escalation del conflitto?
Ho difficoltà a parlare di escalation perché evoca uno sguardo verso il futuro. Il problema è che assistiamo ogni giorno a una guerra in corso, reale e presente: a Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Siria, dove Israele esegue attacchi da anni. Adesso siamo arrivati all’ennesima parte di questa guerra. Dovevamo fermarci a Gaza, sapevamo tutti che era solo la prima tappa. L’allargamento del conflitto non è solamente dovuto alla tenuta interna di Netanyahu e al suo consenso, che peraltro adesso è più consistente di prima. C’è una questione che riguarda i pesi all’interno di una regione, per questo dobbiamo guardare il confronto diretto Iran-Israele come una cosa a se stante.
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"Da anni la destra israeliana ha come obiettivo l’espulsione del maggior numero di palestinesi e il progetto di rendere quelli che resteranno sudditi all’interno di uno stato ebraico in forma di etno-democrazia".
È lecito temere che la Cisgiordania viva un inasprimento del conflitto?
In Cisgiordania c’è già la guerra, da ben prima del 7 ottobre. Se ci poniamo con lo sguardo della storia oggi siamo solo agli ultimi capitoli. Sta avvenendo una costante annessione: la costruzione delle colonie israeliane in West Bank è iniziata negli anni Settanta e si è intensificata con il processo di Oslo. Prima venivano costruite le colonie senza disturbare gli Stati Uniti, questi ultimi davano la disapprovazione, si attendeva del tempo e poi venivano costruite lo stesso. Amira Hass, giornalista di Haaretz, definiva questa dinamica “status quo permanente”, ovvero qualcosa che dovrebbe essere temporaneo per eccellenza come lo status quo, lo stato dell’arte in un dato momento, che invece diventa permanente perché è il modo per rendere più efficace l’apartheid. Quando arrivano al potere i ministri Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, i due esponenti della destra estrema dei coloni, il messaggio è chiaro: basta rinviare il raggiungimento dello scopo. Da qui la camminata sulla spianata delle moschee che è pregna di messaggi politici; la proliferazione delle colonie, soprattutto intorno a Gerusalemme, per isolare la Cisgiordania settentrionale e la distruzione delle infrastrutture e dei campi profughi. Pratiche dell’Idf che abbiamo visto in questi mesi e che sono punti del programma della destra estrema da anni, da molto prima del governo di coalizione attuale. L'obiettivo è l’espulsione del maggior numero di palestinesi e coloro che resteranno dovranno essere sudditi all’interno di uno stato ebraico per il quale essere una etno-democrazia è fondamentale.
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Ha parlato della necessità di storicizzare il conflitto, pensa che oggi sia difficile parlarne con l’obiettività dello sguardo storico?
Oggi sembra quasi una parolaccia voler storicizzare la questione israelo-palestinese. Soprattutto per chi vuole appiattire tutto sulla cronaca e affermare una narrazione di potere. Storicizzare non serve a chi vuole vincere la guerra, serve a chi ammonisce che in questa guerra potrebbero non esserci vincitori. Non si sta solo infiammando il Medio Oriente ma si sta distruggendo quell’architettura internazionale che, seppur fallace ed erede di un sistema coloniale, ha consentito il rispetto delle regole per molto tempo. Se già l’Occidente è accusato di un doppio standard, con la rottura così spudorata delle regole internazionali da parte di Israele, significa che siamo già in un altro mondo.
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Un mondo dove gli esseri umani stanno mostrando di non essere capaci di vivere il pianeta. Un mondo diverso da quello dal quale usciva la mia generazione con la volontà di costruire una convivenza a causa della Seconda guerra mondiale. Una convivenza difficile e una comunità internazionale dai piedi d’argilla, ma fondamentale. Avevamo il ruolo di renderla sempre più globale e decoloniale, e invece stiamo costruendo qualcosa di ancora peggiore. Distruggere i campi profughi, l’Unrwa, definire “danni collaterali" le vittime civili, pensando di eliminare dal mondo la questione palestinese, per il livello di deumanizzazione raggiunto ha già distrutto l’architettura internazionale.
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Nel suo nuovo libro, Il gelso di Gerusalemme, mette al centro la “botanica politica” e non gli esseri umani. Ci spiega meglio?
Lo considero il libro più storico-politico che abbia scritto. Credo ci sia bisogno di capire in che tempo siamo e quali errori abbiamo commesso. In questo Amitav Gosh mi ha fatto comprendere dove stavamo sbagliando, siamo della stessa generazione ma lui è indiano e su molte cose ha uno sguardo diverso dal mio. Abbiamo raccontato una storia degli umani, cercando di far ascoltare e decriptare il linguaggio degli alberi per spostarci dal centro dell’attenzione e considerarci un elemento del sistema. Se si è un elemento del sistema, per riuscire a salvarci dobbiamo cercare di scrivere una storia che comprenda quanti più elementi possibili. Invece noi esseri umani abbiamo agito pensando di dominare tutto, mentre il non umano parlava una sua lingua e narrava la sua cronologia e ci aveva detto che i confini e gli stati nazionali sono solo una questione inventata da noi. Abbiamo provato a posizionarci a distanza e guardare ciò che abbiamo fatto, tentando di capire come era il sistema di relazione tra umano e non umano e come possiamo imparare dagli errori commessi.
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Le estreme destre europee, molte delle quali eredi partitiche dirette dei responsabili della Shoah, sono in prima fila nel sostegno al sionismo. Come possiamo spiegarlo?
Per la destra europea è un modo per rifarsi una verginità e in questo modo superare la storia del nazifascismo. Molti esponenti della destra sono andati a Gerusalemme per testimoniare il sorpasso dell’antisemitismo. In tedesco si direbbe che c’è una sonderweg, ovvero una via speciale di Israele alla politica, dato che si considera un’isola in quella parte del mondo. Dobbiamo però guardare a queste dinamiche considerando i vari movimenti di destra all’interno dei singoli stati e così possiamo far equivalere la destra di Netanyahu alla destra di Viktor Orban, dato che hanno entrambe una concezione di Stato con libertà limitate: un esempio sono la limitata libertà di stampa in Ungheria, in Israele ma anche in Italia, dove gli attacchi sono molto simili. Possiamo pensare a un'alleanza delle destre. Vi sono inoltre delle pratiche simili nei confronti dell’altro, verso chi non è considerato all’interno di un paradigma occidentale.
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