19 novembre 2024
In principio fu la Turchia. Poi la Libia, il Niger, la Tunisia, l’Egitto, fino ad arrivare al discusso accordo con l’Albania. C’è un filo rosso che unisce questi paesi: sono da dieci anni terreno di sperimentazione delle politiche di esternalizzazione delle frontiere europee. Misure adottate nel tentativo di arginare i flussi migratori il cui nome, “esternalizzazioni”, ancora fatica a entrare nel vocabolario del dibattito pubblico, come dimostra uno scambio andato in onda lo scorso settembre tra Lilli Gruber e Elly Schlein: “Lei oggi ha detto, parlando di Lampedusa, che è la dimostrazione del fallimento delle politiche di esternalizzazione del governo – dice la giornalista –. Ma chi la capisce se lei parla così?”.
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Con l’espressione “esternalizzazione delle frontiere” si intende l’insieme delle azioni che uno Stato o un’organizzazione internazionale come l’Unione europea mette in campo al di fuori del proprio territorio per impedire l’ingresso dei migranti. Il più delle volte si tratta di accordi con i Paesi di origine o di transito a cui si delega, spesso in cambio di denaro, il pattugliamento delle frontiere, il trattamento delle richieste di asilo e/o il mantenimento dei migranti in apposite strutture. Uno schema che, però, ha sollevato e solleva molte critiche, tra costi elevati, scarsa trasparenza, rischi per i diritti umani e dubbia efficacia.
In Europa, le prime iniziative in questo senso risalgono agli anni Novanta, ma è a partire dal 2015, nel pieno dell’esodo siriano e del flusso lungo la rotta del Mediterraneo centrale, che l’esternalizzazione delle frontiere ha preso piede come strategia principe nella gestione delle migrazioni. Nel maggio di quell’anno, la Commissione europea ha adottato l’Agenda europea sulle migrazioni che prevede “azioni immediate per intervenire a monte nelle regioni di origine e transito”, come il “rafforzamento delle capacità di gestione delle frontiere dei Paesi terzi”. La stessa linea è stata confermata dal piano d’azione adottato a novembre dello stesso anno al termine del vertice de La Valletta tra i leader africani ed europei, i quali si sono impegnati a “supportare gli strumenti nazionali di controllo delle frontiere terrestri, marittime e aeree e di sorveglianza marittima finalizzati alla prevenzione della migrazione irregolare”, anche attraverso finanziamenti specifici.
Il primo terreno di prova, che diventerà il modello delle politiche di esternalizzazione europee, è l’accordo tra l’Unione e la Turchia firmato nel marzo del 2016: in cambio di 6 miliardi di euro, Ankara si è impegnata a riammettere sul proprio territorio tutti i migranti intercettati dalle autorità greche dopo aver attraversato la frontiera. Per ognuno di questi, Bruxelles avrebbe accolto in Europa un rifugiato siriano tra i 3 milioni fermi in Turchia. Tra i termini dell’accordo anche l’accelerazione del processo di integrazione del Paese nell’Unione, in stallo da anni. Secondo la Commissione, l’accordo ha ridotto del 94 per cento gli ingressi irregolari dalla Turchia, ma a che prezzo? Negli anni, diversi rapporti di organizzazioni internazionali, tra cui organi delle Nazioni Unite, hanno denunciato le violazioni commesse dalle autorità turche nei confronti dei rifugiati siriani, molti dei quali sono stati deportati con la forza in Siria dove rischiano di subire violenze e persecuzioni. Non solo: dall’entrata in vigore dell’accordo a gennaio del 2024 soltanto 40mila rifugiati sono stati ricollocati negli Stati Ue, cifra lontana dalle promesse.
In Turchia nessuno vuole i rifugiati siriani
Nel 2022, l'accordo con la Libia è stato rinnovato per altri 5 anni. Intanto i migranti continuano a subire torture
Nel febbraio del 2017, un altro tassello: è il memorandum d’intesa Italia-Libia concluso tra l’esecutivo allora guidato da Paolo Gentiloni e il governo di unità nazionale di Tripoli, che controlla solo parte del Paese nordafricano. Promosso dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, il testo impegna l’Italia a “fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina”, a contribuire all’“adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza” e alla “formazione del personale libico”. Nel luglio del 2018, poi, il governo ha approvato per decreto la cessione a titolo gratuito di 12 unità navali alla Libia “per incrementare la capacità operativa delle autorità libiche nelle attività di contrasto all'immigrazione illegale e al traffico di esseri umani, nonché di soccorso in mare”. Anche qui, inchieste giornalistiche e rapporti di organizzazioni internazionali, tra cui organi dell’Onu, hanno documentato le frequenti violazioni dei diritti umani commesse dalla guardia costiera libica nei confronti dei migranti, anche utilizzando i mezzi donati dall’Italia. Nei centri di trattenimento, poi, si registrano “morti dovute a violenza, suicidi e malattie” e “i richiedenti asilo, rifugiati e migranti, sia maschi che femmine, compresi minori, sono regolarmente sottoposti a torture e altre forme di maltrattamento, tra cui stupri, violenze sessuali, lavoro forzato ed estorsione”, come ha scritto nel 2020 l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr). Per questo, conclude il rapporto, la Libia non può essere considerata un Paese sicuro verso cui respingere i migranti intercettati in mare. Nonostante questo, nel 2022 l’accordo è stato rinnovato per altri 5 anni.
La vittoria del centrodestra alle elezioni politiche del 2022 ha dato nuovo impulso alle politiche di esternalizzazione. Nel luglio del 2023, la Commissione europea ha siglato con la Tunisia un memorandum d’intesa fortemente voluto dalla premier italiana Meloni, che prevede finanziamenti pari a 150 milioni di euro per sostenere il bilancio dello Stato nordafricano e 105 milioni per la gestione delle frontiere. La firma ha sollevato le critiche di alcuni capi di governo europei esclusi dai negoziati e dello stesso Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell, mentre lo scorso marzo il parlamento europeo ha approvato una mozione che contestava la decisione unilaterale della Commissione di versare in un’unica tranche e senza condizioni i fondi previsti. Lo scorso 21 ottobre, il Mediatore europeo (l’istituzione incaricata di indagare su casi di presunta cattiva amministrazione degli organi dell’Unione) ha denunciato che “la Commissione europea non ha adottato una valutazione d'impatto indipendente sui diritti umani prima di firmare il protocollo e non ha effettuato valutazioni periodiche autonome dell'impatto delle azioni attuate nell'ambito del protocollo d'intesa”.
"Siamo preoccupati dal fatto che la Tunisia continui a essere considerata un luogo sicuro e che la cooperazione prevista dal memorandum con l’Unione europea prosegua, mettendo gravemente a rischio i diritti umani”Relatori speciali Onu
Intanto, le Nazioni Unite continuano a esprimere preoccupazioni per le violazioni che subiscono i migranti nel Paese nordafricano, tra cui retate di arresti arbitrari, deportazioni verso la frontiera con l’Algeria, violenze sessuali. “Siamo preoccupati dal fatto che, nonostante queste gravi accuse, la Tunisia continui a essere considerata un luogo sicuro e che la cooperazione prevista dal memorandum con l’Unione europea prosegua, mettendo gravemente a rischio i diritti umani”, hanno dichiarato lo scorso 14 ottobre otto relatori speciali Onu.
L'ex presidente tunisino: "Dare soldi ai dittatori non fermerà i migranti"
In tutti i casi citati, come anche per il patto con l’Egitto siglato lo scorso marzo, la Commissione europea ha scelto la formula del memorandum d’intesa o della dichiarazione congiunta invece dell’accordo internazionale. “Questo permette di snellire i passaggi istituzionali e bypassare il parlamento, negando la possibilità di dibattito a scapito della trasparenza", ci ha detto l’ex eurodeputata Laura Ferrara. A rendere fumosi questi accordi è anche la scarsa chiarezza sui fondi impiegati per finanziarli. “Non esiste una voce del bilancio europeo esplicitamente destinata a questo scopo – ha spiegato a lavialibera Chris Jones, direttore dell’osservatorio Statewatch –. Parte dei soldi viene dai fondi della Direzione generale affari interni, altri dal budget destinato all’azione esterna, impiegato di solito per gli aiuti allo sviluppo, altri ancora sono contributi volontari di singoli Stati membri. Questo da una parte evita che l’esternalizzazione compaia esplicitamente come politica finanziata dall’Ue, dall’altra riduce il grado di responsabilità”.
Da qualche anno si sta esplorando una nuova frontiera dell’esternalizzazione: non solo pagare i paesi di origine o transito perché tengano i migranti lontani dalla “fortezza Europa”, ma spedire chi arriva verso Stati terzi e gestire là, in appositi centri di trattenimento, le loro richieste d’asilo ed eventuali procedure di espulsione. È quanto hanno cercato di fare dal 2022 i governi conservatori che si sono succeduti in Regno Unito con il piano Ruanda, fallito per l’intervento dell’Alta corte di giustizia e poi abbandonato per volere dell’attuale premier laburista Starmer (che ora, secondo il Sunday Times, starebbe preparando accordi di esternalizzazione “vecchio stile" con Turchia, Kurdistan iracheno e Vietnam). Ed è ciò che sta tentando di fare – senza successo – il governo Meloni con l’Albania. Nonostante le falle dal punto di vista giuridico e gli ostacoli pratici (che vi abbiamo raccontato qui), questo modello sta catturando l’interesse della Commissione europea e di leader stranieri, anche oltreoceano. Secondo The Sun, lo stesso Donald Trump starebbe valutando di varare un piano di deportazione dei migranti irregolari dagli Stati Uniti verso il Ruanda.
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