Foto di James WisemanUnsplash
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Africa, il disegno di Trump: scontro con i paesi "ribelli" e alleanze per indebolire i nemici

Gli Usa sono ai ferri corti con il Sudafrica, che fa parte dell'alleanza economica Brics in continua espansione, mentre corteggiano altri Stati per limitare l'espansione cinese e stabilire nuovi equilibri di potere

Matteo Giusti

Matteo GiustiGiornalista

7 aprile 2025

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Nella guerra commerciale tra le due superpotenze mondiali, Stati Uniti e Cina, il terreno di scontro, oltre all’indo-pacifico, è rappresentato dall’Africa. Il presidente degli Usa Donald Trump sta smontando tutto ciò che l’amministrazione guidata da Joe Biden aveva faticosamente costruito nel continente, basti pensare all’inserimento dell’Unione africana nel G20 come membro permanente.

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Anzitutto il tycoon ha subito bloccato due miliardi di dollari destinati a organizzazioni che lavorano nella cooperazione internazionale, colpendo soprattutto i paesi africani. La mossa è stata momentaneamente bloccata dalla Corte suprema americana, che ha respinto il congelamento di questi fondi, ma il governo ha già preannunciato ricorso. Tagliare i fondi alle ong è soltanto la punta dell’iceberg della nuova politica che Trump ha pensato per l’Africa e lo scontro più duro coinvolge il Sudafrica, prima potenza economica continentale.

Usa e Sudafrica, rapporti tesi

Nelle scorse settimane Ebrahim Rasool, ambasciatore sudafricano a Washington, è stato espulso dagli Stati Uniti con l’accusa di odiare il presidente Trump e il suo paese. Il segretario di Stato Marco Rubio ha imposto al diplomatico sudafricano di lasciare gli Usa entro 72 ore, definendolo “persona non gradita”. Tutto era cominciato con alcune dichiarazioni dell’ambasciatore contro la presidenza Trump, un atto che aveva alzato al massimo la tensione fra i due Stati. Rubio aveva quindi definito Rasool “razzista e nemico degli Stati Uniti”, decretando il suo allontanamento come inevitabile per non compromettere definitivamente i rapporti fra le due nazioni.

Nelle scorse settimane Ebrahim Rasool, ambasciatore sudafricano a Washington, è stato espulso dagli Stati Uniti con l’accusa di odiare il presidente Trump e il suo paese

Dietro alle uscite dell’ormai ex ambasciatore c’è molto di più e si tratta di delicatissimi equilibri geopolitici. Le schermaglie con il Sudafrica erano iniziate quando Trump aveva minacciato il governo del presidente Cyril Ramaphosa, intimandolo di non discriminare la minoranza bianca, dopo un decreto legge che facilitava l'espropriazione delle terre dei bianchi nel paese africano. La minoranza bianca ha ancora un forte peso nella politica sudafricana e, nonostante abbia un peso del 10 per cento, mantiene le redini dell’economia nazionale.

Orgoglio africano

Trump ha anche proposto alcune facilitazioni per l’ottenimento della cittadinanza americana per tutti i sudafricani bianchi che volessero lasciare il Paese, arrivando a uno scontro politico diretto con Ramaphosa. Washington e Pretoria sono quindi ai ferri corti ormai da tempo e la denuncia presentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia contro Israele, accusato di genocidio a Gaza, ha ulteriormente inasprito i rapporti. Nelle accuse non ufficiali contro l’ambasciatore sudafricano, alcuni commentatori repubblicani avevano fatto riferimento ai suoi rapporti con Hamas, ma niente di questo risulta ufficialmente comprovato. Di certo, da quando è tornato alla Casa Bianca Trump ha rafforzato i rapporti con Israele e la denuncia sudafricana ha molto irritato il presidente, che si è schierato senza mezze misure dalla parte di Benjamin Netanyahu.

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Pretoria è un obiettivo primario anche per il peso che esercita sul nuovo esecutivo Elon Musk, sudafricano di nascita e molto interessato alla sorte della sua madrepatria. Dal 2010 il Sudafrica fa, inoltre, parte del gruppo economico dei Brics (che comprende anche Brasile, Russia, India e Cina) e l’alleanza guidata da Cina e Russia è monitorata con grande attenzione e preoccupazione dagli statunitensi. L’espansionismo dei Brics ha coinvolto anche l’Africa con l’ingresso, un anno fa, di Egitto ed Etiopia, mentre altri paesi come Algeria, Burkina Faso e Mali sono in lista d’attesa.

Al momento l’organizzazione non ha ancora una precisa mission politica, ma nasce come antagonista del blocco occidentale e vuole limitare l’influenza americana nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. L’obiettivo di Trump è indebolire l’alleanza, che oltre a essere in espansione risulta attrattiva per numerose nazioni, non soltanto africane, ma anche asiatiche e sudamericane.

Alleanze strategiche 

Se con i sudafricani la scelta è stata quella della durezza, con altri Stati gli Usa stanno cercando di creare intese sempre più forti. Emblematico è il caso del Ruanda, il piccolo e organizzato Stato nella regione dei Grandi laghi guidato da trent’anni da Paul Kagame, un padre-padrone che vince le elezioni con percentuali bulgare e che perseguita e uccide ogni parvenza di opposizione al suo potere assoluto. Gli Stati Uniti e l’Occidente hanno deciso di ignorare la totale soppressione delle democrazia a Kigali, la capitale, utilizzando il Ruanda come un grimaldello nel ventre molle dell’Africa centrale.

Gli Stati Uniti e l’Occidente hanno deciso di ignorare la totale soppressione delle democrazia in Ruanda, utilizzando il paese come un grimaldello nel ventre molle dell’Africa centrale

E così una milizia pagata e armata da Kagame destabilizza la vicina Repubblica democratica del Congo, saccheggiandone le enormi riserve minerarie che Kinshasa aveva già venduto alla Cina. Un quadro che disegna lo scontro fra Cina e Occidente nel cuore dell’Africa per accaparrarsi tutte le risorse minerarie, fondamentali per la transizione energetica. Oltre al Ruanda Washington punta sull’Uganda, paese che da un trentennio è guidato da un presidente autoritario e abile nel destabilizzare i paesi vicini.

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L’ultima mossa di Trump riguarda però il Corno d’Africa, dove gli Stati Uniti rimangono molto restii a intervenire dopo i disastrosi risultati della battaglia di Mogadiscio del 1993. L’ex Somalia britannica, meglio conosciuta come Somaliland, sta cercando da anni il riconoscimento diplomatico e sembrerebbe aver trovato una sponda proprio con alcuni senatori repubblicani molto vicini all’attuale presidente. Il riconoscimento di quello che sarebbe il 56esimo stato del continente africano trova però la ferma opposizione della Somalia, che continua a ritenere il Somaliland parte integrante del suo territorio nazionale.

Un’appartenenza solamente de jure “per legge” e non de facto, cioè concretamente, in quanto l’ex possedimento britannico si amministra da solo dal lontano 1991. A spingere Washington a questo passo diplomatico è Israele, fortemente interessato a ottenere una base navale sulle coste del Mar Rosso, dalla quale controllare le azioni degli huthi dello Yemen.

Africa, questione di interessi

Anche gli Emirati Arabi da anni lavorano in Somaliland e il porto di Berbera, principale hub navale del paese, ha visto un programma di investimenti emiratino di oltre mezzo miliardo di dollari. L’Arabia Saudita spinge da tempo per la definitiva indipendenza e l’Etiopia è pronta a sostenere anche militarmente la nascente repubblica, in aperto conflitto con la confinante Somalia. Mogadiscio vanta l’appoggio della Turchia, che però non sembra essere sufficiente a frenare questo nuovo approccio africano voluto da Trump, intenzionato a ridisegnare gli equilibri maturati negli ultimi vent’anni.

Il patto con il Marocco

Gli Usa hanno rinnovato e rafforzato il rapporto con il Marocco – il più stabile tra gli Stati dell’arco nordafricano, che vanta una lunga collaborazione con gli Stati Uniti – come dimostrano le azioni dell’esercito marocchino, che organizza le grandi esercitazioni con l’Africom, il contingente dell’esercito americano di stanza in Europa, ma costruito per lavorare con i paesi africani. Il Marocco, inoltre, sta aiutando Washington a creare una rete in Africa occidentale volta a limitare lo strapotere di Pechino, che con l’ormai famigerata trappola del debito ha preso il controllo della maggior parte delle infrastrutture africane. Un compito che appare complesso, ma a differenza dell’Europa, riottosa a lavorare come un’unica entità, gli Stati Uniti potrebbero avere la forza economica e politica per spostare la bilancia degli equilibri continentali.

Il Marocco sta aiutando Washington a creare una rete in Africa occidentale volta a limitare lo strapotere di Pechino, che ormai ha preso il controllo della maggior parte delle infrastrutture africane

Di sicuro, l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca ha destabilizzato gli equilibri geopolitici globali. La seconda amministrazione guidata dal tycoon sembra votata al proverbiale divide et impera “dividi e comanda”, dove l’unica vera potenza devono essere gli Stati Uniti. I nemici giurati di Trump sono così diventate tutte le organizzazioni sovranazionali – dall’Unione europea alla Nato, dalle Nazioni Unite all’Unione africana – troppo grandi e quindi considerate una minaccia per lo strapotere statunitense. Trump resta comunque un uomo d’affari e ogni sua decisione è improntata al business, per lui e la sua cricca di fedelissimi.

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