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26 maggio 2025
“Questo è un processo sociale, perché ha come protagoniste la società civile e le comunità locali del Veneto, vittime di un avvelenamento della acque e disastro ambientale dolosi. È un processo che riguarda gli operai Miteni che avevano solo questo posto di lavoro”. Con queste parole il pubblico ministero di Vicenza Paolo Fietta lo scorso 6 febbraio 2025 ha inaugurato l’ultima fase del processo Miteni, iniziato nell’ottobre 2019 e passato alla fase dibattimentale nell’aprile 2021.
In quasi sei anni sono state svolte 131 udienze, con l’ascolto di 120 testimoni, chiamati a spiegare a oltre 300 parti civili cosa sia successo sotto quella piccola fabbrica tra i boschi di Trissino, la Miteni, accusata con i suoi 15 dirigenti di aver compromesso in modo irreversibile la falda acquifera che alimenta Padova, Vicenza e Verona.
Miteni e l'assicurazione contro le richieste di risarcimento danni da parte di dipendenti
Subentrato alla collega De Munari a metà 2023, Fietta ha definito la vicenda una “condotta criminosa” messa in atto da “industriali esperti”, paragonando l’inquinamento da Pfas al disastro dell’amianto. Ha ricostruito la storia industriale del sito: dalla fondazione come Rimar sotto la famiglia Marzotto, alla gestione Mitsubishi dagli anni ’80, fino alla cessione del 2009 a ICIG per un solo euro. “In quella vendita si vede la coda del diavolo”, ha affermato, perché ICIG la prende praticamente gratis accollandosi le passività ambientali, ossia i costi di una bonifica ancora oggi irrisolta.
La metafora usata dalla Procura è quella della “pastiglia avvelenata”: una massa tossica sotto gli impianti che continua a rilasciare contaminanti, sin dall'inizio della produzione di Pfas nel 1967.
“È quella che bisognava fermare, con un’autodenuncia agli enti quando nel 2008 la consulente ambientale di Miteni trova i Pfas nelle acque di falda – incalza Faietta –. Ma voi, società, cosa avete fatto?”. Nessuna denuncia, nessuna richiesta di aiuto.
Il collega Hans Roderich Blattner, titolare dell’inchiesta dal 2017, ha parlato apertamente di “società criminale”, sottolineando come le scelte imprenditoriali siano state “tossiche quanto gli sversamenti”. L’altra immagine evocata è quella del “rubinetto sempre aperto”: la Miteni non avrebbe mai interrotto il rilascio delle sostanze, nemmeno durante le indagini. “Mentre il maresciallo Tagliaferri conduceva magistralmente le indagini - ha continuato Blattner – l’azienda continuava nelle sue azioni illecite con la produzione di nuove sostanze, il GenX e il cC6O4”. Due composti scoperti solo nel 2018, cinque anni dopo l’allarme lanciato dal Consiglio nazionale delle ricerche. Per questo inquinamento ambientale diffuso su oltre 600 chilometri quadrati, la Procura ha chiesto 121 anni e sei mesi di reclusione per nove imputati, escludendo due dirigenti Mitsubishi e quattro italiani, ritenuti privi di potere decisionale.
Le prime parti civili a prendere parola rappresentano il Ministero dell’Ambiente, la Regione Veneto e le aziende sanitarie delle tre province colpite. Chiedono oltre 90 milioni di euro per danni ambientali e sanitari.
Le udienze delle parti civili sono iniziate dopo due giorni di presidio davanti al tribunale, con le associazioni che dal 2013 chiedono verità e giustizia. La notte del 7 febbraio l’hanno passata all’addiaccio, accanto ai ragazzi delle scuole vicentine, informati da anni da volontari coordinati da Donata Albiero.
Le prime a parlare sono il Ministero dell’Ambiente, la Regione Veneto e le aziende sanitarie delle tre province colpite. Chiedono oltre 90 milioni di euro per danni ambientali e sanitari. Paolo Balzani, avvocato per la Provincia di Vicenza, ha chiesto oltre due milioni e ricordato che l’acqua è ancora contaminata: “a distanza di sette anni dal fallimento dell’azienda la nostra falda non è accessibile, l’avvelenamento continua tutti i giorni”.
Le quattro società idriche, che dal 2013 hanno speso oltre 90 milioni di euro in filtri e ricerca di nuove fonti di approvvigionamento, hanno denunciato un utilizzo “della falda come discarica senza fondo”, come dichiarato dall’avvocato Angelo Merlin. Anche Arpa e il Comune di Lonigo, epicentro della contaminazione, hanno chiesto risarcimenti, in nome dei cittadini che vivono con la paura di ammalarsi.
L’avvocato Edoardo Bortolotto, che rappresenta 50 ex operai e diverse associazioni come Medicina democratica e Italia nostra, ha parlato di “deliberata esposizione a un pericolo mortale dei suoi stessi dipendenti da parte dell’azienda”. L’avvocato Matteo Ceruti, che con altri colleghi difende oltre 120 persone, ha evocato l’immagine di un “nuovo Vajont, invisibile e silenzioso”, basandosi sui dati del professor Annibale Biggeri dell’Università di Padova: 4.000 morti in eccesso per patologie legate ai Pfas in 30 anni.
Gli avvocati delle parti civili hanno chiesto fino a 120.000 euro per ciascun esposto, molti dei quali continuano a ingerire Pfas attraverso cibo e acqua locale. In totale, la richiesta complessiva sfiora i 200 milioni di euro.
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Il legale del fondo lussemburghese ICIG ha difeso l’operato della società Mitsubishi, affermando che il suo cliente “ha ereditato una contaminazione prodotta da altri"
Le difese hanno cercato di smontare l’impianto accusatorio, sostenendo che le istituzioni fossero a conoscenza dell’inquinamento e che Miteni abbia operato con trasparenza. Giovanni Lageard, avvocato della Mitsubishi, ha parlato di “inquinamento storico” attribuibile ai Marzotto, sostenendo che fino alla fine degli anni 2000, quando Mitsubishi ha venduto a ICIG, non vi fossero tecnologie in grado di rilevare i Pfas né a correlare questi composti ad alcune patologie.
A sua volta, Ermenegildo Costabile, legale del fondo lussemburghese ICIG, ha difeso l’operato della società, affermando che il suo cliente “ha ereditato una contaminazione prodotta da altri e ci ha investito milioni, perché questa azienda doveva essere sostenuta economicamente”. L’avvocato ha citato l’impianto dei co polimeri, dedicato alla riduzione dell’emissione di Pfas all’esterno, come prova dell’impegno verso la riduzione delle emissioni.
Luigi Guarracino, amministratore delegato di Miteni al momento dell’emersione del caso nel 2013, si è presentato in aula. Il suo avvocato, Leonardo Cammarata, ha rivendicato l’ottenimento della certificazione ambientale ISO 14001 nel 2009 come segno della volontà di tutelare l’ambiente e gli operai: “Il mio cliente ha sempre voluto il benessere della società, rendendola un gioiellino”.
Un gioiellino che secondo il legale Cammarata non era gestito direttamente da Guarracino ma dai dipendenti locali. Posizione non condivisa dal pubblico ministero ha invece ne ha chiesto l’assoluzione. Lo studio Grotto Furin, che difende i chiamati in causa dall’avvocato Cammarata, Davide Drusian, Mario Fabris, Mario Mistrorigo e Mauro Cognolato, ha chiesto l’assoluzione per i suoi clienti “per non aver commesso il fatto. Erano semplici impiegati che rispondevano alle richieste dei vertici, senza libertà di spesa e quindi di azioni decisorie”.
Una difesa messa in discussione dall’ultima arringa dell’avvocato Salvatore Scuto che ha difeso quattro dirigenti, tra cui Brian Mc Glynn e Antonio Nardone. Il primo proveniva da Ausimont Solvay di Alessandria e ha gestito la società Miteni per quasi 10 anni, l’ultimo ha gestito Miteni negli ultimi anni prima del fallimento e, ha sostenuto l’avvocato, “ha speso oltre quattro milioni perché il sito non perdesse. E infatti non perdeva”. “I testimoni di questo lungo processo hanno sempre detto che Miteni era in ottime condizioni - ha continuato Scuto – ma soprattutto i miei clienti dipendevano dalle indicazioni prodotte in loco da Drusian e Fabris”. Una lotta tra imputati, che fino all’ultima arringa hanno rimandato agli enti pubblici come consapevoli dell’intera vicenda “Le istituzioni che ora chiedono i risarcimenti erano a conoscenza di tutto. La Miteni quindi non è mai stata un fantasma, era tutto regolare” è stata l’ultima stoccata di Scuto.
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“Una delle corte d’assise più lunghe d’Italia. Ma non deve stupire perché questo di solito è un tribunale che tratta reati di sangue. Il nostro caso invece è su un disastro che ha richiesto il tempo necessario per capire i passaggi tecnici” ha spiegato l’avvocato Edoardo Bortolotto al Tg3 Veneto alla fine dell’udienza di giovedì 22 maggio 2025.
La giudice Antonella Crea ha rinviato al 26 giugno le repliche dei difensori e di conseguenza la possibile sentenza. Una data che anticipa di due giorni la prima udienza preliminare del secondo processo da Pfas per disastro ambientale in Italia, che sarà celebrato ad Alessandria. Lì saranno al banco degli imputati due ex direttori dello stabilimento Solvay (ora Syensqo) di Spinetta Marengo.
Secondo l’accusa anche loro, per anni, avrebbero acquistato tonnellate di cancerogeno Pfoa da Miteni. Solvay peraltro avrebbe condiviso con Miteni alcune fasi di lavorazione del cC6O4, senza mai richiedere l’autorizzazione alla sua produzione. Questo composto prodotto dal 2008 per la procura vicentina è il sintomo di una contaminazione “voluta dalla ditta Miteni e portata avanti con la società Solvay di Alessandria”. Una collaborazione, quella tra Miteni e Solvay, che ora in aula diventa anche un nodo tra responsabilità ambientale, conoscenza scientifica e giustizia.
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