30 gennaio 2020
Rintracciare i fili che alimentano l’enfasi sovranista della politica italiana non è un esercizio ozioso. Ci troviamo davanti a un mix spesso contraddittorio di pulsioni e idee che lavorano per il ritorno del nazionalismo in Europa, negando che le decisioni politiche possano essere guidate o limitate da diritti universali.
Il cuore dell’idea di "democrazia sovrana" non riguarda la necessità di estendere forme di partecipazione popolare, ma – al contrario – l’idea che non esista stato fuori dal governo che lo gestisce. Se non gestita, la libertà diventa veleno
Forse sembrerà paradossale a tanti osservatori occidentali, ma è fra le rovine del mondo post-sovietico sconfitto e umiliato dalla caduta del Muro di Berlino che ha lentamente preso forma, in ambienti nazional-conservatori, l’idea di "democrazia sovrana" a cui si ispira il sovranismo oggi in voga. Correva l’anno 2006, e il coniglio usciva dal cilindro dell’uomo che, sopravvissuto alla rovina del suo capo – il magnate Mikhail Khodorkovski* – era infine asceso al Cremlino come gran burattinaio dell’era Putin: parliamo di Vladislav Surkov*. Nato in Cecenia come Aslambek Dudaev (nome scomodo, poi cancellato dalle carte, al pari del suo villaggio natio), amante dell’intelligentsia, della filosofia occidentale e del rap, Surkov è stato autore sotto pseudonimo di un romanzo autobiografico sull’amoralità del potere e, infine, ideologo del separatismo russo nella regione ucraina del Donbas.
Il cuore dell’idea di "democrazia sovrana" sfornato da Surkov non riguarda la necessità di estendere forme di partecipazione popolare, ma – al contrario – l’idea che non esista stato fuori dal governo che lo gestisce, e che non esista democrazia che non sia managed. Se non gestita, la libertà diventa veleno tanto per il popolo quanto per lo stato, perciò la "democrazia sovrana" è un sistema di libertà e partecipazione messo sotto tutela e opportunamente manovrato. Il progenitore della “democrazia illiberale” cara alla destra ungherese di Viktor Orban. Dove l’Occidente vedeva nella fine della Guerra fredda l’opportunità di nascita di un nuovo ordine post-sovrano, contraddistinto da interdipendenza, dinamiche transnazionali e ambiti di decisione sovranazionale ed europeo, in Russia dominava invece l’idea del ritorno all’ordine precedente: politiche di potenza, Stati-nazione capaci di alleanze meramente tattiche (in nome della non ingerenza negli affari interni) e ricorrenti guerre per i confini. Nella concezione putiniana, la sovranità non è fondata sull’astrazione del diritto, ma sulla capacità dello Stato; è nutrita di forza militare e indipendenza economica, poggia sull’identità culturale ed è rafforzata dalla tradizione, in sintonia con l’autorità religiosa.
Le sue origini intellettuali, però, non sono in Russia. Ispirati dal pensiero neo-conservatore occidentale (non da ultimo il "modello Singapore"), alcuni importanti politologi russi come Andranik Migranyan (che si definisce estimatore dell’"Hitler prima del 1939") già verso la fine degli anni Ottanta riflettevano su come gestire la transizione di mercato limitando l’apertura politica, e lasciando all’esecutivo una parte di controllo autoritario: il "modello Pinochet", come si diceva allora. Inizialmente sconfitte dai riformisti radicali – che però finirono per consegnarsi mani e piedi alle ricette neoliberali, spalancando la porta al cosiddetto capitalismo da casinò e alle privatizzazioni gestite da gruppi criminal-gangsteristici – le loro tesi guadagnarono valore già nella seconda parte dell’era eltsiniana, accompagnando la fase politica tra il bombardamento del parlamento (il 4 ottobre 1993) e quello della Cecenia (nell’autunno 1999): l’invocazione dell’uomo forte e del maschio vigoroso, preparò l’ascesa di Putin, che si prodigò per spianare la strada del buen retiro al debole e barcollante Boris Eltsin. Il motore putiniano si alimenta con carburante dottrinario di chiara matrice conservatrice, se non reazionaria: nel pensiero sovranista assemblato da Surkov si ritrovano elementi dell’anti-pluralismo decisionista di Carl Schmitt, filosofo del diritto che elaborò alcuni concetti prestati al nazismo, e della vena anti-populista di François Guizot, ispiratore del primato della borghesia molto criticato da Marx ed Engels.
Si comprende l’appello ai valori di conservazione solo se si considera l’enfasi sulla sovranità come forma di vera libertà contro le imposizioni di valori occidentali
Sul piano della politica interna, il sovranismo putiniano non pensa in termini di diritti dei cittadini, ma di "bisogni della popolazione", utilizzando il termine (proto-)slavo narod per esprimere in modo ambiguo sia il concetto di popolo sia quello di nazione (ma anche gente, folla, ceto, contadino). Nell’odierna Russia, la narrazione di un ritorno all’ordine dopo il caos nasce per reazione all’abbraccio di valori universali e cosmopoliti che nel paese evocano il trauma della caduta del Muro, la perdita dello status di potenza, la catastrofe sociale e il degrado morale degli anni Novanta. Si comprende l’appello ai valori di conservazione solo se si considera l’enfasi sulla sovranità come forma di vera libertà contro le imposizioni di valori occidentali. Un lemma del pensiero conservatore: preservare le vere libertà contro quelle false proposte da liberali, socialisti o islamisti, ritenuti quinte colonne delle potenze straniere che complottano per indebolire la sovranità nazionale.
Ne emerge un modello conservatore plebiscitario (antipolitico e antidemocratico) di autolegittimazione. Compito nazional-patriottico è sradicare le reti di società attivatesi internazionalmente (le Ong!), ma anche rafforzare la disciplina morale domestica: gli studi di genere devono essere proibiti, si devono negare i diritti riproduttivi e criminalizzare l’omosessualità. Gli spazi per il dissenso si riducono: il 14 marzo 2014, parlando dell’annessione della Crimea, Putin ha definito i critici "traditori della nazione". Il volto economico di questa assertività nazionalista, fra moralità cristiana e machismo paramilitaresco, è la tutela dei diritti di proprietà. Come lo scienziato politico Ivan Krastev* sostenne già una decina di anni fa, per la dottrina sovranista russa, sovranismo significa né più né meno che industria estrattiva e ragion di stato, a partire dal diritto del potere esecutivo a fare ciò che vuole sul proprio territorio. Il sovranismo non rivoluziona l’economia, ma propone un programma nazional-liberale conservatore che in Russia ha replicato i programmi di austerità visti altrove, in parallelo alla repressione dei movimenti di protesta.
Secondo l’inchiesta di Report, "Matteo Salvini e la Lega sono solo le pedine di un progetto internazionale che punta alla destabilizzazione dell’Ue"
È lungo queste linee di destabilizzazione dei quadri di riferimento e di proiezione strategica che il sovranismo dell’Est, rabberciato sulla tradizionale narrazione della Grande Patria russa, incontra quello assai più nuovo e incerto della piccola nazione padana, che nel frattempo la conduzione Salvini ha sospinto verso una ridefinizione su scala Stato-nazionale (la nascente Lega Italia). Dopo molti viaggi a Mosca, il leader leghista ha costantemente esposto la propria contrarietà alla “follia” (sic) delle sanzioni che l’Unione europea ha imposto alla Russia a seguito dell’annessione della Crimea e la guerra in Ucraina. I canali di dialogo con la Russia hanno però radici ben più profonde.
Secondo l’inchiesta condotta in Italia da Report, "c’è un filo nero che collega la metamorfosi leghista", in chiave sovranista e ultracattolica, "allo scandalo del Metropol di Mosca in cui sono rimasti impigliati Matteo Salvini (seppur non indagato) e il suo ex portavoce Gianluca Savoini" perché la presunta "trattativa della Lega per i soldi e il petrolio russo è solo una tessera di un mosaico molto più ampio, che vede sullo sfondo la nascita di un asse internazionale tra forze estremiste in Russia e negli Stati Uniti. Un mosaico in cui Matteo Salvini e la Lega sono solo le pedine di un progetto internazionale che punta alla destabilizzazione dell’Unione europea". Ad esempio, ci sono i legami con le organizzazioni pro-vita, come il World congress of families (organizzatrice del congresso di Verona dello scorso maggio), la fondazione Novae terrae o il Dignitas humanae institute legata a Steve Bannon, ex stratega di Donald Trump. Rispetto a questa galassia ultra-tradizionalista impegnata a giocare all’attacco, la figura di Salvini ha segnato una progressiva metamorfosi e un irrigidimento rispetto a posizioni espresse anni fa (ad esempio attorno alla questione del fine vita).
L’invocazione del "Cuore immacolato della Vergine" e l’esibizione del rosario riflettono non solo un elemento devozionale mistico e popolare, ma anche un posizionamento identitario
Tutto ciò è stato accompagnato dall’ostentazione di simboli religiosi soprattutto a partire dalla campagna per le elezioni europee del 2019. Durante la manifestazione leghista del 18 maggio scorso in piazza del Duomo a Milano, l’allora ministro dell’Interno ha esibito il rosario e ha invocato il sostegno della Madonna. Il suo gesto non è piaciuto al presidente della Cei Gualtiero Bassetti, alle riviste Civiltà cattolica e Famiglia cristiana, né ai cardinali Pietro Parolin e Angelo Bagnasco. L’invocazione del "Cuore immacolato della Vergine" e l’esibizione del rosario riflettono non solo un elemento devozionale mistico e popolare, ma anche un posizionamento identitario nel solco di una forma di cattolicesimo preconciliare che si è insolitamente riaffacciato negli ultimi tempi attraverso le nuove leadership dell’estrema destra sudamericana, dalla presidenza di Jair Bolsonaro in Brasile, fino alla giunta che ha recentemente preso il potere in Bolivia.
Questa densa ragnatela di significati e relazioni contiene contraddizioni e affonda certamente le radici nell’opportunità offerta dalle circostanze: e tuttavia – piaccia o non piaccia – è andata strutturandosi ormai attorno ad alcuni nodi funzionali che investono tanto la dimensione simbolico-discorsiva quanto quella materiale. Non da ultimo, tali connessioni sollevano più di un dubbio e agitano più di un’ombra. Lo stesso presidente del Consiglio Giuseppe Conte il 23 ottobre è stato piuttosto esplicito a riguardo: "Forse Matteo Salvini dovrebbe chiarire che ci faceva con Savoini con le massime autorità russe, il ministro dell’Interno, il responsabile dell’intelligence russa. Dovrebbe chiarirlo a noi e agli elettori leghisti. Dovrebbe chiarire se idoneo o no a governare un Paese".
Il tentativo di imbrigliare il sovranismo salvinista quale fenomeno emergente con prospettive di crescita con il quale è possibile, saggio e necessario venire a patti, è una strategia che poggia su fondamenta illusorie. Il riferimento qui è tanto al filo di dialogo allacciato da una parte della Chiesa cattolica, in particolare dal cardinale Camillo Ruini, quanto ai tentativi di trovare un accordo e far accettare alla Lega salviniana il premierato in cambio di alcune garanzie di sistema, come l’ancoraggio offerto dal profilo del prossimo presidente della Repubblica (l’ex governatore della Banca centrale europea Mario Draghi?) sul rispetto della disciplina economico-finanziaria per restare nell’area euro. Nel digerire ogni contraddizione, tradendo ogni promessa elettorale, la leadership salviniana ha mostrato di quanta malleabilità dottrinaria e spregiudicatezza tattica è capace. Tuttavia tali mutamenti apparentemente contraddittori sono parte del dna stesso del partito salviniano, ormai lontano dalla sua radice alpino-pagano- nordista, senza per questo averla mai rinnegata. Rispondono a un calcolo elettorale piuttosto spicciolo, tanto quanto il posizionamento internazionale attraverso l’adozione dei cliché sovranisti corrisponde alla necessità di costruirsi una legittimità necessaria e al tempo stesso incassabile, in termini di alleanze e protezioni internazionali, per chi aspira alla poltrona di primo ministro.
Se l’anno di governo giallo-bruno insegna qualcosa, questa cosa è che non c’è stata “moderazione” su nessuno dei dossier di cui si è direttamente occupato, a partire dalla questione migrazioni. Al contrario, l’ambizione di potere dell’allora ministro dell’Interno e vice-premier Matteo Salvini si è dimostrata non puntellabile: è avanzata alimentando tensioni, rifuggendo le sedi istituzionali e manipolando la comunicazione pubblica fino a far cadere l’esecutivo nell’ipotesi di un plebiscito tramite il quale ottenere «pieni poteri». L’unica strategia per disinnescare il potenziale eversivo del nazionalismo, in Italia come in Europa, è impiegare ogni risorsa politica per sconfiggerlo duramente.
* Mikhail Khodorkovski: imprenditore tra i primi e più importanti oligarchi russi. Vive a Londra ed è uno degli oppositori più forti di Vladimir Putin.
* Vladislav Surkov: nato col nome di Aslambek Dudayev in Cecenia, a Duba-Yurt (poi raso al suolo), lavora come “pr” per Khodorkovski e poi col presidente russo Boris Eltsin. In seguito diventa un consigliere personale di Putin.
* Ivan Krastev: scienziato politico bulgaro, dirige il Centre for Liberal Strategies dell’Università di Sofia. Nel febbraio 2019 ha pubblicato il libro Gli ultimi giorni dell’Unione (Luiss University Press).
Da lavialibera n° 1 gennaio/febbraio 2020
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